Intervista al musicista Osvaldo Di Dio: jazz e musica elettronica da Napoli a Milano
NAPOLI – Il suo nome è Osvaldo Di Dio, in arte “didio” perché “così mi ha sempre chiamato Franco Battiato”. Il grande artista siciliano è solo uno dei nomi con cui didio, chitarrista e cantante napoletano di origini ma milanese di adozione, ha collaborato. E l’influenza del cantautore de “La Cura” è molto forte in “Mi gira la testa”, il primo singolo del musicista che anticipa l’album d’esordio di prossima uscita.
“Mi gira la testa”: il primo singolo di didio
Il videoclip del brano, dal 1 novembre online, mette in scena “la cosiddetta dipendenza da smartphone. Il protagonista trascorre tutta la serata “scrollando” il feed dei social, non accorgendosi minimamente del tempo che scorre, scandito dal “video nel video” trasmesso dal televisore che resta sempre acceso nella stanza, ma che lui non guarda neanche un momento. Riesce a trovare una via di fuga solo tramite la musica quando, sul finale, prende in braccio la chitarra, l’unica cosa in grado di fargli posare lo smartphone”, spiega l’artista. “Mi gira la testa” parla dunque della velocità frenetica del quotidiano: “La testa gira perché siamo risucchiati dal continuo vortice di informazioni che ci arrivano a ritmo frenetico”, prosegue didio. La musica dunque come “cura”.
Tu nasci come musicista e arrangiatore, hai collaborato al fianco di grandi musicisti della scena italiana e internazionale. A breve l’uscita di un album di brani scritti, suonati e cantati da te. Come nasce questo progetto musicale?
E’ stato un processo naturale: quando ho cominciato a scrivere musica italiana hanno preso forma 30 brani in poco tempo. Nelle mie canzoni ci metto la faccia per la voglia che ho di giocare le mie carte. Erano perfette per il luogo in cui mi trovavo, vale a dire Milano, e per il momento, particolarmente florido. Avevo due strade davanti a me: o lasciare l’Italia per fare il chitarrista blues in California, o restare nel mio Paese. Questi 30 brani mi hanno convinto a restare.
Per te la musica è quindi strettamente legata al tempo e allo spazio in cui ci si trova.
Assolutamente. Napoli ha una grande tradizione del blues, grazie anche all’influenza americana in città, portata dalla base Nato a Bagnoli. E io mi sono accorto, viaggiando, che la musica è legata allo spazio e al tempo in cui si vive: se qualcosa non funziona nella tua musica vuol dire che stai sbagliando una delle due cose. Non sono d’accordo con chi dice che se un artista non è compreso la colpa sia del pubblico. Io credo al contrario che quel pubblico sia legato al proprio spazio e al proprio tempo, e che sia semplicemente l’artista a sbagliare la sua collocazione. Il blues resta parte integrante della mia anima di chitarrista, ma ho capito nel tempo che per potermi esprimere come in quel momento volevo avrei dovuto lasciare l’Italia.
Le sonorità elettroniche di “Mi gira la testa” richiamano molto lo stile di Battiato.
Sì, questo brano è infatti una sorta di omaggio al grande Maestro con cui ho avuto l’onore di collaborare. E’ il primo dei quattro singoli che usciranno fino alla prossima primavera, e sono tutti legati tra loro da un sound che richiama la musica di Battiato. D’altronde, a lui devo molto. Non dimenticherò mai il momento in cui mi disse che ci sarà sempre spazio per chi è capace di scrivere belle canzoni. “didio” è come mi chiamava lui: ho voluto celebrare così la nostra amicizia e la nostra collaborazione.
Quali sono stati e sono ancora i tuoi modelli musicali?
Se sono un chitarrista è grazie all’influenza fondamentale della musica di Pino Daniele. Ho studiato chitarra a Napoli, la mia è una formazione jazz, quindi il percorso più vicino a Pino. Nel ’95 lo vidi in concerto a Cava de Tirreni: ne rimasi folgorato. Da lì decisi di studiare jazz, per poi perfezionarmi in chitarra elettrica. Mi sono trasferito a Milano nel ‘99 quando avevo 19 anni, e lì ho frequentato il conservatorio laureandomi in jazz. Portai una tesi su Jimy Hendrix: nessuno prima di me in Italia lo aveva fatto.
Tra i grandi nomi della musica italiana con cui hai lavorato spicca il nome di Cristiano De André. Parlaci di questa tua esperienza.
Affianco da dieci anni Cristiano nel tour “De André canta De André”, una sua personale rilettura dell’opera del padre, Fabrizio. Quando nacque quest’operazione c’era bisogno di musicisti che portassero una visione nuova, non troppo legata al repertorio di Faber. Io venivo dalla scena londinese, da cui avevo acquisito il sound british della musica dei Radiohead e dei Coldplay. Cristiano voleva andare esattamente in quella direzione.
Un’operazione che ha funzionato.
La musica e i testi di Fabrizio restano invariati. Abbiamo solo cambiato il “vestito” per far avvicinare a questo mondo i giovani che non hanno mai ascoltato la canzone d’autore, aggiungendo sonorità elettroniche e rock. Un po’ come la Pfm ha fatto 40 anni fa. Quando hai a che fare con dei brani così perfetti e artisticamente alti, il vestito cambia solo per dare maggiore potenza ai brani. Ha funzionato, e questo perché oggi tanti ragazzi giovani vi si rispecchiano di più e scoprono un messaggio altro.
Un’operazione difficile da fare invece con i testi di Battiato.
Per Battiato l’arrangiamento è composizione. Tutto dipende dall’approccio dell’artista, ma quando entri in un mondo sonoro così preciso e delicato non puoi toccare niente. Lui è uno sperimentatore che nel corso degli anni si è affiancato a tante personalità diverse. In queste trasformazioni il sound cambiava, come una materia viva facile da plasmare.
Una frase in cui ti rappresenti come uomo e artista?
Amo moltissimo una frase dello psichiatra Massimo Fagioli che recita:“La libertà è l’obbligo di essere esseri umani”. Per me essere sani è essere liberi. Una rivoluzione culturale si può fare solo partendo dalla capacità di essere essere umani.
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