Un passo indietro deciso, rinunciando alle cariche di capo politico e capo delegazione al governo. Ma con l’intenzione di rimanere dentro il Movimento, per difenderlo dai “peggiori nemici” interni ed esterni. Sono passate da poco le 18, quando Luigi Di Maio annuncia a tutti la decisione comunicata ai suoi ministri in mattinata: ho portato a termine il mio compito, rassegno le dimissioni. Prima di lui, sul palco del Tempio di Adriano, il senatore Emilio Carelli aveva parlato di giornata “storica” e, in effetti, le previsioni non rimangono disattese.
Davanti ad un pubblico quasi commosso e che gli regala almeno tre standing ovation, Di Maio pronuncia un discorso lungo e sentito, dove trova il tempo di ringraziare Conte, Grillo, Gianroberto e Davide Casaleggio( “E’ sempre stato in prima linea, lo rispetto”, lo omaggia il presidente di Rousseau), ma anche di togliersi qualche sassolino dalle scarpe. “Ho lavorato per far crescere il M5s e proteggerlo dagli approfittatori e dalle trappole lungo il percorso”, scandisce guardando negli occhi i suoi fedelissimi. C’è il rimorso di aver perso voti cercando di realizzare il programma, ma anche la consapevolezza che i “peggiori nemici hanno tradito i nostri valori per visibilità”. Per usare le sue parole, il rumore di pochi (Di Battista, Paragone non sembrano nomi a caso) ha “sovrastato il lavoro di moltissimi”. Dalle sue frasi traspare orgoglio per quanto fatto in 27 mesi da capo politico, forse avendo superato l’idea iniziale di uno vale uno. Di Maio, ad un certo punto, forse inebriato dal successo alle Politiche del 2018, valeva tre: leader, ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico. Ha retto alla batosta alle Europee,ora ha deciso di mollare a pochi giorni dal voto delle Regionali. I motivi sono essenzialmente due: evitare di dover rispondere di un probabile flop per un’avventura mai condivisa e la presa d’atto che il Movimento è troppo spaccato. Le anime sono ormai cinque, sei e nelle prossime ore altre espulsioni potrebbero certificare la crisi di identità del Movimento.
Meglio spegnere le luci sopra di sé allora, lasciando il timone al reggente Vito Crimi per una fase di transizione molto delicata. Perché sarà proprio lui, il viceministro dell’Interno grillino della prima ora, a guidare il Movimento fino agli Stati Generali di metà marzo. “Voglio ringraziare Luigi, quanto successo oggi non ha nessun impatto sul governo e sull’azione del Movimento”, sono le sue prime parole a caldo, mentre la fidanzata del ministro degli Esteri, Virginia Saba, stringe mani e saluta visibilmente sollevata.
In effetti, anche il sorriso finale di Di Maio sembra quello di chi si è tolto un peso, ma che non vuole fare lo sgambetto a Conte: “Ho imparato ad ammirarlo, credo che il governo debba andare avanti”. La promessa è che non abbandonerà la sua casa, perchè il M5S “è la mia famiglia, ma qualsiasi cosa accadrà mi fido di voi, di noi, di chi verrà dopo di me”. Il futuro sarà affidato ai facilitatori e ad un nuovo leader ancora da scegliere, con Chiara Appendino e Stefano Patuanelli tra i nomi più quotati da bookie. Di certo è finita l’era Di Maio, enfant prodige e per anni guida indiscussa del Movimento, nato come antisistema ma divenuto un partito classico.
E allora, alla fine del discorso, forse è giusto per lui togliersi la cravatta ‘istituzionale’: “Buona fortuna. Ne avremo tutti bisogno”, è il suo commiato, che apre di fatto la fase più incerta della storia pentastellata.
Alessandro Banfo (LaPresse