NAPOLI – Marco De Micco è tornato a casa. Il presunto capo del clan che porta il suo nome, il ras dei tatuaggi, era detenuto al 41 bis a L’Aquila. Difeso dall’avvocato Stefano Sorrentino, il 37enne è riuscito ad ottenere la scarcerazione con la sola misura dell’obbligo di presentazione all’autorità giudiziaria. A Ponticelli torna in uno dei momenti più difficili per gli equilibri malavitosi del quartiere, nel bel mezzo di una guerra che vede il suo gruppo in prima linea con i De Martino e che vede, dall’altra parte i Casella. Una faida che ha mietuto già una vittima e che ha generato una lunga scia di sangue per quanto riguarda i ferimenti. Senza contare l’ordigno esploso in via Crisconio, in una delle zone che in passato erano ritenute controllate proprio dai De Micco.
I poliziotti lo arrestarono nel 2013 mentre era in corso una cerimonia nuziale, rovinando la festa ai novelli sposi. Al banchetto partecipava tra gli invitati, sfoggiando un look da boss e un Rolex da oltre 30mila di euro che “nella simbologia camorristica – spiegano gli inquirenti – ne distingue lo status di capo”. Marco De Micco, fino a un anno prima, era uno sconosciuto. Il 37enne viene ora indicato come un boss nel gruppo a conduzione familiare che si è imposto sulla scena criminale di Ponticelli approfittando del vuoto di potere determinato da una pioggia inarrestabile di arresti e sfruttando al massimo l’appoggio fornito dai Cuccaro di Barra. Già, i ‘barresi’.
I De Micco sono la loro longa manus, i referenti a Ponticelli di quella potentissima cosca che dall’estate del 2009 studiò il modo più silenzioso ed indolore per annettere al loro feudo il regno che fu dei Sarno. Prima di guadagnarsi l’etichetta di malavitosi, i fratelli De Micco erano dei ragazzi come tanti. Figli della periferia est di Napoli. Figli di un quartiere difficile. Giovani con la passione del pallone. Ed è proprio al pallone che Marco, Luigi e Salvatore – tutti detenuti in carcere con accuse che spazia no (a vario titolo) dall’associazione di stampo mafioso, al traffico di droga, all’estorsione e all’omicidio – devono il loro soprannome: i ‘Bodo’. Quel soprannome divenuto un marchio di affiliazione, anche sulla pelle.
Quel soprannome che ha fatto il giro del mondo perché alcuni degli affiliati si sono fatti tatuare addosso le quattro lettere in segno di rispetto e di appartenenza. E’ accaduto tutto durante una partita di amici. Quando i De Micco erano più piccoli e non avevano ancora manifestato velleità criminali. Luigi era sul terreno di gioco, era impegnato in una partita di calcetto con gli amici. E uno dei compagni, in un lampo di creatività, lo chiamò ‘Bodo’. Un nome scelto non a caso. Luigi De Micco non è molto alto, è assai scuro di pelle e quando era più ragazzo aveva i capelli ricci.
Ricordava molto uno dei protagonisti di ‘Piedone l’Africano’, il film col quale è cresciuta la gestione degli anni Ottanta, la generazione dei fratelli De Micco. Bodo è il bimbo sudafricano orfano di madre che incontra Bud Spencer (nel film il commissario Rizzo detto ‘Piedone’) durante una missione in Sudafrica del poliziotto; il funzionario è alla ricerca di prove per risalire all’omicidio di un agente del posto (padre di Bodo) che Rizzo avrebbe dovuto incontrare a Napoli per uno scambio di notizie su un traffico di droga e che invece venne ammazzato al porto del capoluogo partenopeo. Da quel giorno Luigi De Micco viene chiamato ‘Bodo’ e l’appellativo si è esteso ben presto a tutti i suoi fratelli. Era un nomignolo affettuoso, è diventato un marchio di fabbrica della camorra.