ERTO E CASSO (Pordenone) – Erto e Casso è un comune sparso di 370 abitanti: il 9 ottobre di 58 anni fu distrutto dal disastro del Vajont. Duemila morti, oltre che lì nel fondovalle veneto, una tragedia che ha segnato per sempre non soltanto la valle pordenonese e il territorio vicino. Sopravvive, resiste, come buona parte dei posti di montagna che da decenni vedono andarsene i propri abitanti: con ognuno se ne va un pezzo di storia e uno di futuro, un declino che pare inarrestabile. Servirebbero, per fermarlo, azioni concrete, inserite in un piano strutturato, riposte a esigenze che per qualcuno sono impossibili da soddisfare. C’è bisogno di concretezza, sì, ma possono servire anche altri tipi di gesti, forse ancora più importanti, nell’essere simbolici. Nella frazione di Casso non vivono più di quindici famiglie. Gente di montagna, che lì ha scelto di rimanere nonostante difficoltà e disagi, andando oltre i palcoscenici più comodi messi a disposizione da territori meno impervi. Tre giovani coppie, che non vivono più in paese ma hanno almeno un componente originario di Casso, hanno scelto di battezzare lì, assieme, i loro figli. Tre battesimi tutti assieme a Casso non si vedevano da più di cinquant’anni. Il loro legame col paese è ancora forte, sostenuto dalle seconde case dove tornano appena possibile, qualcuno ogni fine settimana. Antonio Manarin è nato a Casso: con Antonella Diana hanno scelto il paese per il battesimo di Francesco, pur vivendo a Pordenone. Erika Monforte e Michele Manarin, quest’ultimo di Casso, hanno dato il benvenuto a Giovanni Leone nonostante la loro casa principale sia a Sacile (Pordenone). Veronica De Lorenzi, di Casso, e Mirko Costa abitano a Sagrogna (Belluno) con Violante. A celebrare i battesimi il parroco, don Augusto Antoniol, quindi è stata la volta della festa con gli abitanti: uniti, per lanciare un messaggio. Per dirsi sì, la montagna può vivere ancora.
“Da cinquant’anni non si celebravano tre battesimi contemporaneamente a Casso – spiega Antonella Diana -, abbiamo voluto dare un segnale di speranza. Io e il mio compagno ogni fine settimana torniamo in paese, ci stiamo bene. Abbiamo voluto, per così dire, fare un regalo, oltre che a noi, agli abitanti. Fino a pochi anni fa c’era un unico bambino, oggi adolescente, era la mascotte. Credo che di quanto è accaduto con i battesimi parleranno per tanto tempo”.
(LaPresse)