Da “Lovigino” ai babyras, come è cambiata Forcella
Napoli, centro storico. Francesco Pio Corallo, detto “’o nonno”, classe 1992, è ritenuto uno degli eredi della “Paranza dei Bambini”. Erano i giovanissimi che hanno preso le redini del clan Sibillo dopo l’omicidio di Emanuele Sibillo, commesso il 2 luglio del 2015, quando il babyboss aveva appena 19 anni. E dopo l’arresto del fratello Pasquale Sibillo, avvenuto il 4 novembre del 2015 a Terni, dopo 5 mesi di latitanza. Parliamo di figure diventate centrali, negli ultimi anni, nella guerra per il controllo delle attività illecite sul territorio. Una guerra che ha come epicentro il quartiere di Forcella, un tempo feudo dello storico boss Luigi Giuliano, detto “Lovigino”.
La vendetta per l’omicidio di Emanuele Sibillo
Come reazione all’omicidio di Emanuele Sibillo, l’11 novembre del 2015 il suo gruppo uccise Vincenzo De Bernardo, classe 1969, detto “Pisiello” al parco San Sossio di Somma Vesuviana. Era ritenuto un esponente di spicco del clan Buonerba/Mazzarella di San Giovanni a Teduccio. De Bernardo, originario di via Oronzio Costa a Forcella, fu ammazzato perché i Sibillo ritenevano che avesse ospitato uno dei killer del loro babyboss. Si trattava del nipote Roberto De Bernardo, anche lui ritenuto affiliato al clan Buonerba, dopo l’agguato.
Lo scenario criminale
Il gruppo dei Buonerba era alleato dei Mazzarella nella guerra contro i Sibillo-Giuliano-Brunetti-Amirante. A sostegno dei quali si erano schierati i Rinaldi, i Minichini e i De Luca Bossa. Tra l’altro, gli inquirenti ritengono che l’omicidio De Bernardo sia stato commesso anche per lanciare un segnale chiaro ai Mazzarella. Perché questi puntavano a espandersi nel Nolano, nell’area vesuviana e nel cuore di Napoli. Ed è proprio per questo omicidio che Corallo è stato arrestato ieri. La Direzione Distrettuale Antimafia ritiene che il 30enne abbia fatto parte del commando omicida, con il ruolo di autista.
Di cosa risponde oggi Corallo
I reati ipotizzati a suo carico sono omicidio aggravato dalle modalità mafiose, detenzione e porto illegale di armi da sparo in luogo pubblico. Al momento della notifica dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere per questo episodio, emessa dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Napoli su richiesta della Dda, Corallo era detenuto presso la casa circondariale di Prato, in Toscana.
Gli altri 6 componenti del commando sono stati arrestati in precedenza.
“Mauè” e le Pazzignane
Il 16 febbraio del 2019 fu arrestato il presunto mandante dell’omicidio, identificato nel boss Ciro Rinaldi, detto “Mauè” (“My Way”). Rinaldi era latitante da circa 4 mesi. Era a casa di alcuni suoi parenti a San Pietro a Patierno. Prima di lui, il 15 gennaio del 2019, erano state arrestate Luisa De Stefano e Vincenza Maione, detta “Enzina”. Entrambe esponenti di un gruppo formatosi nell’area orientale di Napoli, detto delle “Pazzignane”, alleato del clan Rinaldi.
Le condanne per il gruppo di fuoco
Il 6 luglio del 2021 i tre sono stati condannati in primo grado dalla Corte di Assise di Napoli alla reclusione per 35 anni ciascuno. Tra gli altri imputati per l’omicidio anche Luigi Esposito alias “’o Sciamarr”, che nel giugno del 2021 è stato condannato a 20 anni di reclusione. E Stefano Gallo di Scisciano, che avrebbero avuto un ruolo più marginale. Quello di procacciatore dell’arma utilizzata per il delitto, che è stato invece condannato a soli 3 anni di reclusione.
Perché De Bernardo doveva essere “punito”
Occhio per occhio, dente per dente. Quando non si riconosce più nello Stato il solo soggetto legittimato all’uso della forza, l’unica legge che vale è quella della giungla. Furono queste logiche a spingere il commando di fuoco dei Sibillo/Rinaldi a uccidere Vincenzo De Bernardo, 46 anni. Non solo perché “apparteneva” alla fazione rivale, quella dei Buonerba. Una costola di quei Mazzarella che si erano messi in testa di dare vita a un piccolo impero, con ramificazioni persino a Roma. Ma perché aveva osato offrire supporto logistico a uno degli esecutori dell’omicidio di Emanuele Sibillo, il babyboss del centro storico.
Il “codice d’onore” del clan
Un omicidio che era stato letto come un atto vile, una pugnalata alle spalle. Un’aggressione commessa in violazione delle leggi non scritte di una sorta di “codice d’onore” tramandato oralmente, come nei “clan” delle società primitive. Un’onta che andava lavata con il sangue e subito, perché la matrice fosse chiara a tutti, soprattutto agli avversari. Inizialmente l’omicidio fu inquadrato nella guerra per il controllo dello spaccio. Poi le indagini e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Gli inquirenti capirono che il delitto era stato commesso per ragioni molto più complesse.
Faccia a faccia con il killer
Erano le 19 e 30 circa dell’11 novembre del 2015. In via San Sossio, a Somma Vesuviana, De Bernardo era in piedi davanti ai suoi killer. Non scappava, evidentemente stava parlando con qualcuno che conosceva. All’improvviso gli spari risuonarono in tutto il quartiere. Data l’ora, non poteva trattarsi di petardi, per cui partì subito la segnalazione alle forze dell’ordine. Quando l’ambulanza arrivò sul posto, la vittima era ancora viva. Morì nel tragitto che portava da via San Sossio alla clinica Trusso di Ottaviano. La verità sarebbe arrivata presto, e con essa il tramonto dei Sibillo.
Il pizzo a pizzerie e prostitute
Il 9 marzo 2019 per Francesco Pio Corallo e altri 10 giovani scattarono le manette. L’accusa era di estorsioni ai danni di diverse pizzerie del centro storico di Napoli, salumerie, macellerie e persino prostitute della zona. Tra i reati contestati ad alcuni dei giovani coinvolti anche la vendita al dettaglio di sostanze stupefacenti. Fu allora che la magistratura indicò ’o nonno quale protagonista delle dinamiche criminali locali. Ruolo cristallizzato in una sentenza arrivata lo scorso febbraio per 15 giovani, da parte della Corte di Appello.
Le condanne recenti
Francesco Pio Corallo fu condannato a 8 anni e 8 mesi di reclusione, Luca Capuano, detto ’o cafon a 9 anni e 2 mesi, Rita Carrano a 6 anni e 10 mesi, Antonio Esposito, “’o popp ‘e Sibillo”, a 7 anni e 4 mesi, Raffaela Criscuolo a 3 anni e 6 mesi, Marco Napolitano a 7 anni, Enza Grossi a 14 anni. Giuseppe Napolitano rimediò 15 anni, Ciro Albano, detto ’o zio, 9 anni, Giovanni Ingenito ’o luong 9 anni e 8 mesi, Vincenzo Sibillo ’o ninno, padre di Lino ed Emanuele, 6 anni, Giovanni Matteo ’o pinguino 9 anni e 6 mesi, Alessia Napolitano 6 anni e 10 mesi, Azzurra Venza 6 anni, 10 mesi e Roberto Postiglione 2 anni e 8 mesi.
Il culto del babyboss
Era diventato un vero e proprio oggetto di culto, il busto del babyboss Emanuele Sibillo. Custodito su un altare in una sorta di edicola votiva che qualcuno aveva allestito tra le strette viuzze del centro storico di Napoli. Era in un palazzo storico di vicolo Santi Filippo e Giacomo, era la meta del “pellegrinaggio” di tanti giovani che vedevano in lui un modello a cui ispirare le proprie azioni. Una statua che riproduceva il volto del giovane ammazzato il 2 luglio del 2015, con tanto di barba. Un vezzo che per un periodo è stato oggetto di emulazione da parte dei tantissimi ragazzi che vivevano nel centro storico di Napoli.
Il busto al Museo Criminologico di Roma
Una situazione inaccettabile per lo Stato. Che non poteva non intervenire per mettere fine a quella che sembrava una vera e propria sfida alle regole del vivere civile, al diritto, alla legalità. Ai tanti napoletani onesti che ogni giorno sono costretti a vivere nella paura dei proiettili vaganti, delle estorsioni, dei soprusi dei prepotenti. E così il 28 aprile del 2021 furono catturati 21 presunti esponenti della nuova criminalità organizzata partenopea. Gli inquirenti ordinarono anche il sequestro di quella statua. Che dal 9 dicembre dello scorso anno è in esposizione a Roma, al museo criminologico.
I Nuovi Giuliano
Tra i vicoli del centro il clima è tutt’altro che disteso. “Ora ci sono i nuovi Giuliano”, è il mantra che i giovani emuli dei boss più o meno recenti ripetono senza sosta. Da una parte ci sono i Mazzarella, cosca originaria di San Giovanni a Teduccio, fondata dal boss Zaza. Da tempo dilagano dal centro alla periferia e allungano i loro tentacoli in provincia e fuori regione. Dall’altra ci sono i giovanissimi “gangster” nativi di Forcella, che fanno sentire la loro presenza con sfilate in motorino e spari.
Spaccio, rapine ed estorsioni
Cresciuti nel mito dei vecchi padrini, hanno un solo obiettivo: scacciare gli “invasori” e stabilire un nuovo ordine nel quartiere. Non hanno un’organizzazione che consente loro di tenere sotto controllo le attività criminali della zona, ma sono un pericolo da non sottovalutare. Anche perché al momento sono gli unici a non essere venuti a patti con i ras della zona orientale. Per ora pensano a racimolare qualche soldo con piccole attività di spaccio e soprattutto con le rapine. Alcuni sono ancora minorenni, per la maggior parte hanno tra i 16 e i 24 anni d’età.
Pacta sunt servanda
Si conoscono un po’ tutti e basta poco perché si organizzino in una struttura più ampia. Per ora i Mazzarella lasciano correre. Oggi sono loro a coordinare le attività illecite su gran parte del territorio, soprattutto lo spaccio. Non dappertutto, però. I Contini continuano ad esercitare la loro influenza al Vasto. Anche in questo caso, però, si tratta di patti che valgono solo fino a quando i contraenti li rispettano. E di solito li rispettano solo fino a quando credono che la pace sia più conveniente della guerra. Insomma, è solo questione di tempo.