Castellammare, undici arresti: preso il reggente del clan D’Alessandro

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In alto da sinistra Antonio Salvato, Giovanni D’Alessandro e Massimo Mirano. In basso Paolo Carolei, Pasquale D’Alessandro e Vincenzo D’Alessandro
In alto da sinistra Antonio Salvato, Giovanni D’Alessandro e Massimo Mirano. In basso Paolo Carolei, Pasquale D’Alessandro e Vincenzo D’Alessandro

La città di Castellammare si risveglia sotto il peso di un nuovo, doloroso capitolo nella sua storia di lotta al potere camorristico. Un’operazione della Direzione distrettuale antimafia e della polizia di Stato ha portato all’esecuzione di una misura cautelare per undici persone, dieci delle quali finite in carcere, smantellando il vertice che stava guidando la silenziosa ma implacabile riorganizzazione del clan D’Alessandro, una delle presenze criminali più radicate nel tessuto stabiese.

L’inchiesta, frutto del lavoro certosino di Sisco, Squadra Mobile di Napoli e del commissariato locale, ha squarciato il velo sull’operatività del clan tra il 2023 e il 2025, dimostrando che né gli arresti passati, né le detenzioni eccellenti erano riuscite a spezzare la catena di comando e l’influenza sul territorio. Al centro del nuovo assetto, emerge la figura di Pasquale D’Alessandro, 58enne, indicato dagli inquirenti come il reggente dopo la sua scarcerazione.

Pasquale, figlio dello storico capoclan Michele, avrebbe assunto le redini gestendo gli incassi del racket e la cruciale cassa comune. Accanto a lui, l’organigramma vedeva il fratello Vincenzo D’Alessandro – già detenuto e a processo per l’omicidio del consigliere comunale Gino Tommasino – e Paolo Carolei, uomo di fiducia e figura apicale. Questa triade ha guidato una strategia di resilienza, un ritorno alle origini che si è rivelato un tentativo di blindare la comunicazione.

La loro operatività era quasi un fantasma per gli strumenti d’indagine moderni: i summit non si tenevano in covi isolati o tramite messaggi criptati, ma in luoghi insospettabili, come sale riservate di bar, ristoranti e negozi compiacenti della città. Lì, dopo essersi liberati dei telefoni cellulari, i vertici si radunavano per ridisegnare le gerarchie, impartire ordini e chiudere affari. Un’atmosfera di cupa segretezza, un “parlare all’orecchio” che mimava le vecchie tradizioni di Camorra, volto a evitare qualsiasi forma di intercettazione.

Gli incontri, documentati dall’Antimafia come veri e propri vertici strategici, dimostrano la meticolosa cura con cui il clan cercava di ripristinare il suo potere. Il cuore pulsante dell’economia illecita del clan rimaneva l’estorsione, imposta con costanza e precisione, soprattutto nel settore dell’edilizia. Imprenditori e commercianti venivano sistematicamente costretti a versare denaro, un tributo che non solo garantiva la sopravvivenza del clan, ma che ne alimentava la percezione di onnipresenza.

In questo schema, un ruolo cruciale era ricoperto da Giuseppe Oscurato (parente alla lontana di un consigliere comunale), che avrebbe agito come una sorta di cassiere. Il suo compito era raccogliere e registrare le estorsioni, riversando i proventi in una cassa comune fondamentale per la stabilità del gruppo. Da questa cassa dipendevano il mantenimento degli affiliati e, cosa ancor più grave, il sostentamento economico delle famiglie dei detenuti. Un meccanismo che garantisce fedeltà e silenzio, perpetuando il ciclo criminale di generazione in generazione.

L’indagine ha messo in luce la capacità del clan di non limitarsi alla violenza di strada o al racket tradizionale, ma di estendere la propria ombra sull’economia legale e persino sulle istituzioni pubbliche. Gli inquirenti hanno individuato alcune ditte di pulizie riconducibili al clan che erano riuscite ad ottenere appalti significativi. Tra questi, spiccano i contratti di pulizia all’interno dell’ospedale San Leonardo di Castellammare e quelli presso la società calcistica della Juve Stabia, quest’ultima già posta in amministrazione controllata per sospette infiltrazioni malavitose.

Il tentativo, secondo la Dda, era quello di prendere possesso anche dell’azienda fornitrice di bibite per le gare interne. Tutti elementi che rivelano una camorra che cerca di legittimare i propri proventi e di esercitare un controllo capillare, infiltrandosi dove il denaro pubblico e l’interesse sociale sono più intensi. A testimonianza della brutalità e della ferrea disciplina imposte dalla leadership, le indagini hanno ricostruito un episodio di violenza interna agghiacciante.

Per punire due affiliati ritenuti infedeli o colpevoli di qualche grave mancanza, i vertici avrebbero ordinato un violento pestaggio. A uno dei soggetti puniti è stato tagliato un dito – un gesto di mutilazione che evoca la violenza dei cartelli più efferati – mentre l’altro ha riportato la frattura del setto nasale. Il tentativo di coprire l’accaduto è stato patetico quanto drammatico: una volta medicati, i due hanno simulato un incidente stradale per giustificare le ferite in ospedale.

Gli undici arrestati dovranno rispondere, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, estorsione, tentata estorsione e detenzione a fine di spaccio di droga, delitti tutti aggravati dal metodo mafioso e dalla finalità di agevolare il clan D’Alessandro. L’operazione, che ha sfiorato anche la politica locale con una perquisizione presso un lontano parente di un consigliere comunale di maggioranza, riafferma la determinazione dello Stato a recidere l’ombra permanente del crimine organizzato su Castellammare.

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