MARCIANISE – E’ il resoconto frammentario, quasi sussurrato, di chi si è trovato involontariamente al centro di un dramma. Dopo il silenzio formale delle indagini e l’eco sorda delle sirene, emerge la voce convulsa, disarmante, di chi ha vissuto quei minuti dall’interno, dai banchi di scuola trasformati improvvisamente in un’aula di attesa e di terrore. La tragedia di Federica D.B., la studentessa di 12 anni precipitata dalle scale di emergenza della sua scuola media Calcara a Marcianise, si arricchisce così del crudo, ineluttabile dettaglio dell’ora in cui la vita ordinaria è collassata. Il dramma si è consumato intorno alle 10. Federica, dopo aver lasciato quel biglietto sul banco – un “mi dispiace” che ora pesa come un macigno – aveva chiesto di uscire. Secondo quanto raccolto dalle testimonianze, il suo percorso è stato immediato, deciso: “Ha chiesto alla professo- ressa di poter andare in bagno, è uscita dal bagno. Ha aperto la scala di emergenza… è stato proprio immediato”. L’atto è stato rapido, un lampo di dolore solitario. In aula, però, la routine continuava, ignara. L’arrivo della scientifica, il sequestro dei telefoni, ha rappresentato il primo, confuso segnale che qualcosa di grave era accaduto.
“E’ entrata la scientifica in classe, ha tolto tutti i telefoni ai ragazzi. I ragazzi non sapevano nemmeno che cosa stesse succedendo, però sentivano le urla”. Le urla. Il suono sordo che, dai cortili e dall’esterno dell’edificio, ha raggiunto le aule chiuse, diventando l’unico e straziante comunicato di un evento indicibile. Le professoresse, nel tentativo disperato di proteggere i ragazzi, di mantenere un parvenza di normalità in un contesto stravolto, hanno taciuto. Nessuna spiegazione, solo la crescente, palpabile tensione. La scena esterna, il cortile dove il corpo di Federica giaceva dopo la caduta dal secondo piano, si è trasformato in un palcoscenico di dolore incontenibile. I soccorritori tentavano l’impossibile, mentre l’aria si riempiva di invocazioni disperate. Una testimone adulta, presente al momento dell’arrivo dei genitori, ha raccontato i minuti di atroce speranza e poi di crollo emotivo: “Urlavano ‘noi ti amiamo Federica, non devi farci questo’, mentre cercavano di rianimarla”.
Il racconto si concentra poi sull’arrivo dei genitori, Maria Cristina e Francesco, la cui compostezza è stata spezzata dalla visione del dramma e dalla consapevolezza che ogni sforzo era vano. Il dolore di una madre che tenta di forzare il cordone della polizia per raggiungere la figlia, il padre annientato, hanno trovato un’inattesa consolazione nel calore di un abbraccio offerto da un’estranea, la madre di un’altra studentessa. La tragedia ha paralizzato l’intera struttura scolastica. La dirigenza, nel tentativo di tutelare gli alunni, ha sigillato la scuola. Nessuno poteva uscire né entrare. L’area transennata era il fulcro del dramma, ma l’intero edificio era diventato una sorta di prigione emotiva. Una situazione surreale, in cui i bisogni più elementari dei ragazzi – anche solo uscire per andare in bagno si scontravano con le esigenze della sicurezza e della cronaca. Il senso di impotenza si è diffuso tra gli adulti, costretti a gestire l’ordinario in un momento in cui l’ordinario era stato irrimediabilmente infranto. Il resoconto si chiude sull’immagine degli sguardi. Gli sguardi interrogativi degli alunni, ignari ma spaventati dalle grida, gli sguardi distrutti dei genitori, gli sguardi sconvolti di tutti gli adulti coinvolti: “Erano tutti in lacrime”.



















