AGRIGENTO – L’ombra del carcere a vita torna ad allungarsi su Roberto Lampasona, il 48enne di Santa Elisabetta accusato di essere uno degli assassini di Pasquale Mangione. A quasi quattordici anni da quel brutale omicidio, la Procura Generale presso la Corte d’Assise d’Appello di Palermo ha giocato la sua carta più pesante, chiedendo la conferma della condanna all’ergastolo emessa in primo grado. Una richiesta che risuona con particolare fragore, considerando il paradosso giudiziario che avvolge questa vicenda: Roberto Lampasona, condannato al fine pena mai, è un uomo libero.
La sua scarcerazione, avvenuta tempo fa, non è frutto di un’assoluzione o di una revisione del processo, ma di un clamoroso vizio di forma. Un errore nella notifica di un atto da parte della Procura ha infatti causato la scadenza dei termini di custodia cautelare, aprendo le porte del carcere all’imputato e lasciando una ferita aperta nel sistema giudiziario e nella comunità. Oggi, 24 novembre 2025, mentre i giudici di secondo grado si ritirano per decidere, Lampasona attende il verdetto da uomo libero, un fatto che aggiunge un ulteriore strato di tensione a un processo già complesso e doloroso.
La storia di questo delitto affonda le radici in una fredda serata del 2 dicembre 2011. Pasquale Mangione, 69 anni, ex impiegato comunale di Raffadali, viene trovato senza vita nella sua casa di campagna, un’abitazione isolata in contrada Modaccamo. L’esecuzione è spietata. Per quasi un decennio, il caso rimane un “cold case”, un fascicolo impolverato negli archivi della Procura di Agrigento, un delitto senza colpevoli e, soprattutto, senza un perché. La vita tranquilla della vittima non sembrava offrire appigli per un’indagine.
La svolta arriva, inaspettata, grazie a una voce dall’interno. È Antonino Mangione (nessuna parentela con la vittima) a rompere il muro di omertà. Le sue dichiarazioni, rese agli inquirenti, squarciano il velo di mistero, fornendo nomi e dettagli. Racconta di aver partecipato alla fase organizzativa del delitto, un ruolo che lo qualifica come testimone chiave, un pentito “de facto”. Grazie a lui, gli investigatori ricostruiscono il commando. Secondo l’accusa, a premere il grilletto furono in due: Angelo D’Antona e, appunto, Roberto Lampasona.
Il percorso processuale si è però diviso. Mentre D’Antona è già stato condannato in via definitiva a 30 anni di reclusione, la posizione di Lampasona è rimasta più intricata. L’uomo, con precedenti per droga ma anche un’importante assoluzione passata in giudicato dall’accusa di associazione mafiosa, si è sempre proclamato innocente. Il processo di primo grado si è concluso con la massima pena, l’ergastolo, ma la testimonianza del collaboratore, nel frattempo deceduto durante l’iter giudiziario, non è mai riuscita a illuminare il punto più oscuro dell’intera vicenda: il movente. Perché uccidere un ex impiegato comunale di 69 anni? Interessi economici? Una vendetta personale? Un segreto inconfessabile? Le dichiarazioni di Antonino Mangione hanno fornito il “chi”, ma non il “perché”, lasciando un’inquietante domanda senza risposta.
Ora, la parola passa alla Corte d’Assise d’Appello. I giudici dovranno soppesare le prove, le testimonianze cristallizzate negli atti e la richiesta durissima della Procura Generale. Dovranno decidere il destino di un uomo che, a causa di un inciampo burocratico, attende da uomo libero di sapere se dovrà tornare in carcere per sempre.






















