SAN GENNARO VESUVIANO – Una lancetta sul 5, l’altra sul 12. È l’alba del 10 dicembre 2025 quando le luci dei lampeggianti squarciano il buio di via Nola, a San Gennaro Vesuviano. Le saracinesche sono ancora calate, la città dorme, ma dietro la facciata anonima di una palazzina di tre piani si nasconde un inferno di sfruttamento e degrado. Un vero e proprio opificio-lager, dove la dignità umana è stata sacrificata sull’altare del profitto illecito. Al termine di una complessa operazione, i Carabinieri denunceranno 11 persone e libereranno 76 operai da una condizione di schiavitù moderna.
L’intervento, pianificato nei minimi dettagli, ha visto i militari della stazione locale, coadiuvati dal Nucleo Forestali di Roccarainola, dal Nucleo Ispettorato del Lavoro (NIL), dalla Polizia Locale e da personale tecnico di Enel e dell’Asl, fare irruzione in quello che sulla carta doveva essere un semplice edificio residenziale. La realtà che si è palesata ai loro occhi è stata agghiacciante. Un intreccio inestricabile tra abitazioni di fortuna e una fabbrica tessile completamente abusiva, uniti da un unico, terribile comune denominatore: il degrado più assoluto.
Ai piani superiori, la scoperta più sconvolgente. In quelli che un tempo erano appartamenti, i militari hanno contato 76 operai, tutti di origine straniera, stipati in condizioni disumane. Stanze fatiscenti, annerite dall’umidità e prive di un’adeguata aerazione, erano state trasformate in dormitori improvvisati. Letti arrangiati alla meglio, materassi gettati a terra, fili elettrici scoperti e servizi igienici ridotti all’osso, insufficienti per un numero così elevato di persone. La vita di questi uomini sembrava scorrere unicamente al ritmo dei turni di lavoro imposti dalla fabbrica sottostante. In uno di questi ambienti, quasi a voler preservare un barlume di umanità e identità culturale in mezzo alla miseria, era stato ricavato anche un piccolo spazio dedicato al culto islamico.
Scendendo al piano terra, lo scenario non migliorava. Qui si trovava il cuore pulsante di questo sistema di sfruttamento: un opificio tessile completamente abusivo, privo di qualsiasi autorizzazione e norma di sicurezza. Macchinari in funzione sotto una tettoia anch’essa illegale, costruita per nascondere l’attività agli occhi indiscreti. A rendere il quadro ancora più grave, la scoperta di un pozzo artesiano, scavato senza alcun criterio né permesso, dal quale veniva prelevata l’acqua per alimentare l’intera struttura, sia per le esigenze produttive della fabbrica che per l’uso personale dei 76 operai, con rischi sanitari incalcolabili.
L’operazione congiunta ha permesso di smantellare l’intera filiera dell’illegalità. Al termine degli accertamenti, 11 persone, tra proprietari dell’immobile e gestori dell’attività, sono state denunciate in stato di libertà. Le accuse a loro carico sono pesantissime e vanno dall’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (il cosiddetto “caporalato”) alle violazioni delle norme urbanistiche, ambientali e in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro. L’intera struttura è stata posta sotto sequestro, mentre per i 76 lavoratori si aprirà ora il difficile percorso di assistenza e regolarizzazione. Un blitz che ha scoperchiato l’ennesimo vaso di Pandora, mostrando come, anche nel 2025, la schiavitù possa nascondersi dietro la facciata di una palazzina qualunque, nel cuore produttivo della provincia napoletana.





















