NAPOLI – Un nuovo, duro colpo al cuore del clan Amato-Pagano, gli “scissionisti” che per anni hanno controllato con il pugno di ferro un vasto territorio tra Melito, Mugnano e i quartieri a nord di Napoli. Alle prime luci dell’alba di oggi, la Direzione Investigativa Antimafia (DIA) ha stretto le manette ai polsi di 11 persone, eseguendo un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal GIP del Tribunale di Napoli su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia. Le accuse, pesantissime, vanno dall’associazione per delinquere di stampo camorristico all’intestazione fittizia di beni e al riciclaggio, il tutto aggravato dall’aver agito per agevolare il potente sodalizio criminale.
L’operazione odierna si inserisce nel solco di un’attività investigativa senza sosta, rappresentando la prosecuzione diretta del maxi-blitz che appena 24 ore prima, il 17 dicembre, aveva portato all’arresto di 53 presunti affiliati, ricostruendo l’intero organigramma del clan. Un’organizzazione che, nonostante la detenzione al regime del 41 bis dei suoi fondatori storici, Raffaele Amato e Cesare Pagano, continua a essere guidata dai loro discendenti diretti, dimostrando una resilienza criminale e una capacità di riorganizzazione impressionanti.
Le indagini, coordinate dalla DDA e condotte dal Centro Operativo DIA di Napoli, hanno svelato dettagli inquietanti sulla vita interna del clan, confermando non solo la sua piena operatività, ma anche una capillare e meticolosa divisione dei ruoli. Tra gli aspetti più significativi emersi vi è l’esistenza di un vero e proprio sistema di “welfare” parallelo. Gli investigatori hanno documentato l’elargizione sistematica delle cosiddette “mesate”, stipendi mensili destinati ai familiari, quasi sempre le mogli, degli affiliati detenuti. L’importo non era casuale, ma direttamente proporzionale al rango e all’importanza del carcerato all’interno della gerarchia criminale, un modo per garantire la fedeltà delle famiglie e mantenere il controllo anche dietro le sbarre.
Ma per gestire gli affari illeciti, il clan aveva bisogno di luoghi sicuri, lontani da occhi e orecchie indiscrete. In questo contesto, sono stati raccolti gravi indizi di colpevolezza a carico di una coppia di coniugi di Melito. I due avrebbero messo a completa disposizione la loro abitazione, situata in pieno centro cittadino, per i summit dei vertici del clan. Secondo quanto ricostruito, in occasione delle riunioni, i coniugi si allontanavano discretamente, lasciando l’appartamento nella piena disponibilità degli affiliati per pianificare strategie e affari.
L’ostentazione del potere e della ricchezza, unita alla necessità di non dare nell’occhio, passava anche attraverso un parco veicoli di lusso. È emerso che esponenti di spicco del gruppo erano i proprietari di fatto di auto e moto di elevato valore commerciale, fittiziamente intestate a società riconducibili a imprenditori compiacenti. Per eludere i controlli delle forze dell’ordine, venivano stipulati falsi contratti di noleggio, una copertura studiata a tavolino per giustificare il possesso di beni altrimenti inspiegabili.
L’inchiesta ha inoltre acceso un faro sui flussi di denaro sporco. Sono state contestate condotte di riciclaggio e autoriciclaggio: i proventi delle attività illecite venivano versati su carte di credito prepagate, utilizzate poi per trasferire ingenti somme all’estero, in particolare verso la Spagna, storica roccaforte logistica ed economica del clan. Nel provvedimento figurano anche tentativi di estorsione ai danni di imprenditori locali, a riprova della pressione asfissiante che il clan continua a esercitare sul tessuto economico del territorio.
Come sottolineato dalla Procura della Repubblica, il provvedimento eseguito è una misura cautelare disposta in fase di indagini preliminari. I destinatari sono da considerarsi presunti innocenti fino a sentenza definitiva e avverso l’ordinanza sono ammessi mezzi di impugnazione.





















