Riforma della Giustizia, la lezione di Garofalo sul “sindacato” nel Regno di Napoli: “Era il popolo a giudicare i magistrati”

Il veterano dei penalisti e fondatore dell’Unione delle camere penali della Campania ripercorre la storia dell’istituto che sottoponeva il lavoro delle toghe al vaglio dei cittadini.

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L'avvocato Giuseppe Garofalo durante l'intervista
L'avvocato Giuseppe Garofalo durante l'intervista

Da due secoli il nome della città di Santa Maria Capua Vetere è sinonimo di giustizia. La “Città del Foro”, ancora oggi sede di uno dei più importanti tribunali della Campania, è stata anche la culla della scuola forense più prestigiosa d’Italia, che ha illuminato il mondo della giustizia sul piano nazionale. A quella generazione di principi del foro appartiene senza ombra di dubbio l’avvocato Giuseppe Garofalo, che ha fondato e ha coordinato per decenni l’Unione delle Camere Penali della Campania.

Ma Garofalo non ha solo affascinato pubblico, colleghi avvocati e magistrati nelle aule di giustizia. Ha scritto innumerevoli libri sul tema, da appassionato di storia del diritto e non solo, soprattutto quella campana. È un appassionato e attento studioso del Regno di Napoli, del periodo delle grandi rivoluzioni e del Risorgimento. Tra i suoi titoli più noti e apprezzati ci sono “La seconda guerra napoletana alla camorra”, “L’empia bilancia”, “Le ragioni del boia” e molti altri.

Dall’alto della sua immensa cultura e della sua esperienza, Garofalo ha qualcosa da dire sulla riforma della Giustizia che da qui a breve, dopo l’approvazione in Parlamento, sarà sottoposta al vaglio degli elettori con il prossimo referendum confermativo, presumibilmente a marzo. “Io non credo – taglia corto quando gli si chiede cosa non lo convinca – che siano i magistrati a dover giudicare i loro colleghi”. C’è stato un tempo in cui il lavoro dei magistrati veniva sottoposto alla valutazione del popolo, con l’istituto del “sindacato”. Ne parla in uno dei suoi libri, “L’empia bilancia”.

In cosa consisteva questo “sindacato”?

Era l’istituto giuridico che obbligava i giudici e chiunque esercitasse giurisdizione a rendere conto, ogni due anni, con una procedura pubblica, ai cittadini e alle istituzioni, del loro operato e a subirne le conseguenze se non fosse stato riscontrato conforme a legge. Due erano i pilastri di garanzia del cittadino: il sindacato e la ricusazione dei giudici. Il sindacato è scomparso e solo a parlarne oggi provoca l’itterizia tra gli interessati e scomuniche. La ricusazione è diventata uno strumento fuori uso e chi cerca di utilizzarla è sospettato di lesa maestà e manutengolo, se non correo, del ricusante.

Di quale periodo parliamo?

A introdurre l’istituto nell’ordinamento giudiziario del Regno, come strumento di garanzia e difesa del cittadino dalla malagiustizia, era stato Federico II di Svevia. Per aiutare il popolo a liberarsi dal giogo dell’aristocrazia feudale, egli assoggettò i cittadini ai giudici. I giustizieri provinciali ebbero poteri di inquisitori generali, persino sui costumi dei cittadini. Ma per evitare che i giudici prendessero il posto dei baroni, li assoggettò alle leggi. Non perse tempo in vuote affermazioni di principio: stabilì pene precise per i contravventori, chiamate “leggi di misericordia” e inserite nelle Costituzioni di Melfi del 1231.

Qual era la procedura?

Terminato il mandato, il giudice rimaneva sul posto per cinquanta giorni per rispondere alle lamentele dei cittadini. Su tali denunce decideva il successore. Se da un lato questo impediva lo scarico di responsabilità, dall’altro rischiava di ridurre il sindacato a un “affare tra soci”, critica che ancora oggi viene rivolta al Csm. Se il giudice risultava integro, riceveva un certificato liberatorio per proseguire la carriera. Al contrario, se le accuse risultavano provate e si trattava di corruzione, l’accusato veniva dichiarato infame e trattato come pubblico ladro. Doveva risarcire i danni e gli venivano confiscati i beni”.

Che fine ha fatto, poi, questo istituto?

L’articolo 101 delle Costituzioni di Federico ha vagato per i tribunali per secoli, maltrattato, invocato, discusso, difeso, finché non fu fatto morire. Dopo qualche secolo, si è reincarnato nella Costituzione italiana. Della sua prima esistenza ha mantenuto solo il nome: 101. Il resto è sotto gli occhi di tanti. Il reincarnato è una creatura vuota senza cervello, senza spina dorsale. Un parolaio che non si fa capire: «I giudici sono soggetti solo alla legge». Si limita a dire ciò che il predecessore, invece, aveva detto sì, ma apprestando anche gli strumenti per realizzarlo. Tra i due articoli 101 corre un solco più profondo del tempo che li separa. Quello dell’assemblea di Melfi lo capiscono tutti. Quello della Costituzione italiana non lo capisce nessuno. Il primo fu fatto per impedire al giudice di abusare dell’illimitato potere di cui disponeva. Questo della Costituzione della Repubblica sembra fatto solo per garantirglielo.

Il sindacato sopravvisse, poi, agli stravolgimenti politici successivi?

Dopo gli Svevi, gli Angioini lo lasciarono così come era. Poi fu la volta degli Aragonesi. Nel 1477 Ferrante d’Aragona confermò l’obbligo del «sindacato», ma ne rivoluzionò la procedura con norme che elevavano la garanzia a livelli mai raggiunti. Chi volesse ripristinarle oggi dovrebbe mettere in bilancio di poter essere rinchiuso in qualche manicomio data la sua pericolosità, o in carcere come destabilizzatore dell’ordine costituito. I giudici, infatti, dovevano pubblicamente dare conto della loro amministrazione e rispondere alle accuse di natura sia civile che penale. Se riconosciuto colpevole il giudice era tenuto anche alle spese. A garanzia veniva trattenuta la terza parte dello stipendio. Ma le novità sconvolgenti erano altre: a sindacare i giudici non dovevano essere altri giudici, ma gli amministratori dei Comuni ricadenti nel territorio dove il giudice aveva esercitato il suo mandato, avvalendosi di un «consultore» conoscitore delle leggi. Questi doveva essere scelto nei paesi vicini non compresi nel territorio dove il giudice aveva esercitato il suo ufficio. Il «consultore» andava pagato dai Comuni col diritto a rivalersene se il giudice fosse stato condannato. I giudici della Gran Corte della Vicaria erano giudicati dagli Eletti della città di Napoli che si avvalevano di due «consultori». L’era del «sindacato» fra soci era finita. Il perché di quella decisione il re lo disse nella stessa legge, chiaramente senza andar per i vicoli e senza ipocrisia. Accusava i giudici, per informazioni ricevute, di non fare quello che per legge dovevano fare e di fare, invece, quello a cui non erano tenuti. Un’usurpazione di potere, o invasione di campo, come suol dirsi. Dopo cinquecento anni, all’invasione di campo dei giudici è stato dato un nome e una giustificazione: supplenza necessaria.

Sembra impensabile, al giorno d’oggi.

Oggi i benpensanti rabbrividirebbero al pensiero che una o due persone, i «consultori», potessero mettersi sotto i piedi uno o più giudici. Per gli antichi il problema non esisteva. E facevano funzionare la logica: se nell’ordine delle cose era possibile che un giudice si mettesse sotto i piedi migliaia di cittadini, doveva ritenersi più che normale che una sola persona potesse mettersi sotto i piedi un solo giudice. Gli antichi, oltre che dalla logica, si sentivano sostenuti da Dio. La Giustizia per san Tommaso, tanto per restare a Napoli, è la ragione stessa di Dio che governa il mondo. Per la Chiesa è la prima delle quattro virtù cardinali e un attributo di Dio. Esercitata da Lui non è a chiedergliene ragione. Esercitata da un mortale senza che ne desse ragione significava che c’era un altro Dio, anche se pieno di miserie, debolezze e vizi. I giuristi non avevano dubbi: il «sindacato» era di diritto divino.

Ma fino a quando l’istituto è sopravvissuto?

Dopo gli Svevi e gli Angioini finirono anche gli Aragonesi. Ma non finì il «sindacato». Gli Spagnoli ne confermarono il contenuto e in parte ne esasperarono la procedura. L’imperatore Carlo V, con tutto il rispetto per san Tommaso, per i princìpi della Chiesa, per gli attributi di Dio e per i grandi giuristi, ci tenne a precisare a che cosa serviva il sindacato: «Affinché i giudici abbiano maggiore cura nell’esercizio della Giustizia e non opprimano né le popolazioni né i sudditi». L’imperatore e i suoi giuristi erano convinti che il giudice, come ogni altro pubblico funzionario, sapendo di dover dar conto del suo operato si sarebbe comportato con maggiore scrupolo e astenuto da atti persecutori.

Oggi anche il tema della responsabilità civile dei magistrati sembra essere un campo minato.

Certo, c’è stato invece un tempo in cui le cose erano ben diverse. Penso alla prammatica del 1518 inviata a Napoli da Carlo V: il giudice, prima di prendere possesso della carica, doveva versare cauzione a garanzia che non si sarebbe sottratto al «sindacato». Gli uffici fiscali tenuti all’esecuzione della legge erano soggetti a una pena pecuniaria di mille ducati in caso d’inosservanza. Durante il viceregno spagnolo, lungo duecento anni, il sindacato visse una vita tormentata da modifiche, mutilazioni, riduzioni, svuotamenti. I tentativi dei giudici di essere esentati dal «sindacato» furono ripetuti, duri, e divennero terreno di scontro tra magistrati e politica. Da Castelcapuano si respingeva la consuetudine che imponeva ai giudici, al momento di prendere possesso, l’obbligo di prestare giuramento in ginocchio davanti agli Eletti e di rispettare le leggi e le costituzioni della città. Da San Lorenzo si rispondeva che su questi punti non c’era da trattare. E il conflitto era degenerato in uno scontro rimasto celebre nella storia cittadina. Il giudice della Vicaria Cortes, uno di quelli che lottavano per l’abolizione del «sindacato», nel recarsi a una visita al viceré, notati nell’anticamera gli Eletti, aveva chiesto a un collega cosa ci facevano lì quei Masanielli. All’epoca il nome del grande lazzaro veniva usato come termine dispregiativo. Gli Eletti lo avevano sentito e avevano deciso di impartirgli una lezione. Ne avevano informato il viceré, che li aveva pregati di soprassedere perché avrebbe risolto lui la questione. Mandato a chiamare il giudice Cortes, alla presenza della Corte lo aveva preso a pugni e calci accusandolo di essere traditore del re. Né mancavano gesti e comportamenti intimidatori dei giudici nei confronti dei querelanti e dei consultori. Si presentavano alle udienze di «sindacato» a San Lorenzo in toga non solo per marcare la distanza dai comuni mortali, ma anche per far loro sapere il potere di cui disponevano. E peggio di peggio, erano ricorsi a interpretazioni selvagge, qualcuna al limite del suicidio giudiziario.

Cosa è cambiato nella cultura giuridica?

Una teoria moderna, un po’ complicata, sostiene che il giudice, con la prospettiva di dover dar conto, perde la serenità. Il giudice non sereno, perché condizionato dalla preoccupazione, non è più autonomo e di conseguenza non indipendente. In definitiva: chi sa di dover rendere conto finisce per comportarsi male e chi sa di non dover dar conto a nessuno si comporta bene. Chissà se Aristotele l’avrà capito. Lo Stato ne ha preso atto e per garantire al giudice la serenità ne paga gli errori e a volte gli abusi. Qui è inutile evocare Aristotele perché la logica non c’entra.

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