Roma, 15 mag. (LaPresse) – Le regole prudenziali dell’Unione europea in materia bancaria – in particolare sulle condizioni per computare le azioni nel capitale primario delle banche -non lasciano al legislatore nazionale alcuna facoltà di scelta tra le due presunte ‘opzioni’, ossia la limitazione quantitativa del rimborso del socio recedente e il suo rinvio, ma gli impongono di attribuire alla banca il potere di adottarle entrambe. Solo così le azioni possono essere considerate strumenti del capitale primario di classe 1. Pertanto, la censura al decreto sulle banche di aver preferito la soluzione più onerosa per il socio recedente è infondata, dal momento che il legislatore non aveva margini di scelta.
È uno dei passaggi della sentenza n. 99/2018 sulla riforma delle banche popolari (decreto legge 24 gennaio 2015 n. 3 convertito nella legge n. 33/2015), depositata oggi in cancelleria (relatrice Daria de Pretis), con cui la Corte costituzionale ha spiegato le ragioni della decisione presa il 21 marzo scorso (e anticipata con un comunicato stampa) sulle questioni sollevate dal Consiglio di Stato.
Dopo aver riconosciuto la sussistenza dei presupposti per la decretazione d’urgenza, in linea con quanto già affermato nel 2016 su un ricorso della Regione Lombardia, la Corte ha affrontato le altre questioni sottoposte al suo esame, riguardanti principalmente la legittimità delle limitazioni del rimborso dei soci recedenti e i poteri della Banca d’Italia di definirne le modalità.
Quanto al primo punto, la Corte ha rilevato anzitutto che le limitazioni previste costituiscono un ragionevole bilanciamento fra la tutela dei diritti del socio recedente e l’interesse generale alla stabilità del sistema finanziario. Esse sono inoltre strettamente collegate alla situazione prudenziale della banca, nel senso che il rimborso può essere limitato dalla banca solo se, nella misura e nello stretto tempo in cui ciò sia necessario per soddisfare le esigenze prudenziali. Qualora la banca assuma misure limitative del rimborso del socio recedente, spetta agli amministratori verificare periodicamente la situazione prudenziale della banca, nonché la permanenza delle condizioni che ne hanno imposto l’adozione, e prendere i provvedimenti conseguenti, ove esse siano venute meno. In tal caso, se il rimborso è stato differito, il credito del recedente deve considerarsi esigibile; se è stato ridotto quantitativamente, le azioni non rimborsate sono restituite al recedente. È quindi scongiurato, anche con riferimento alla tutela fornita dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’effetto espropriativo temuto dal rimettente.
Quanto al secondo punto, la Corte ha escluso che il potere della Banca d’Italia di disciplinare le modalità delle limitazioni del rimborso delle azioni, in caso di recesso a seguito di trasformazione della società, contrasti con i parametri costituzionali indicati nell’ordinanza di rimessione. Contrariamente a quanto ritenuto dal Consiglio di Stato, la norma contestata non è una previsione di delegificazione, perché non attribuisce all’Istituto di vigilanza la facoltà di adottare una disciplina ‘sostitutiva’ di quella dettata dalla legge né fa derivare dall’entrata in vigore della fonte secondaria la cessazione di efficacia di disposizioni delegificate. Considerato inoltre che, nella definizione della disciplina ad essa affidata, alla Banca d’Italia non spetta alcuna valutazione politico-discrezionale sugli interessi in gioco e che il suo potere è fortemente circoscritto dai regolamenti europei, secondo la Corte non sussiste nemmeno violazione del principio di legalità sostanziale.