MILANO – Oltre 860 civili uccisi, 58 dei quali bambini; più di 100mila sfollati solo nello stato di Kayah; almeno 4.800 arresti, tra cui quello della leader di fatto del paese, Aung San Suu Kyi; decessi in carcere a seguito di torture. È questo il bilancio dei tre mesi e mezzo seguiti al colpo di stato militare portato a termine il 1 febbraio in Birmania, secondo Amnesty International. Suu Kyi, il cui processo è iniziato il 14 giugno, rischia decenni di carcere per accuse prodotte a scopo politico, tra cui incitamento, corruzione e violazione delle norme sull’import-export (in questo caso, dopo il rinvenimento nella sua abitazione, di due rice-trasmittenti). Nel frattempo l’Associazione degli stati del sudest asiatico (Asean), “in ossequio alla sua tradizionale politica di non-ingerenza, sta sostenendo di fatto la repressione dei militari birmani, afferma l’organizzazione”. L’incontro del 4 giugno tra una delegazione dell’Asean e il capo della giunta militare non ha prodotto alcun risultato. Ben pochi stati membri dell’Asean appoggiano la richiesta di una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni unite che proclami un embargo sulle armi destinate alla Birmania e di un’analoga risoluzione, questa teoricamente vincolante, del Consiglio di sicurezza. L’unica dichiarazione di un certo rilievo è stata quella, diffusa il 13 giugno, in cui i ministri degli Esteri dell’Asean hanno chiesto la scarcerazione dei detenuti politici. Un atto cui il giorno dopo i militari al potere hanno risposto iniziando il processo contro Suu Kyi.
LaPresse
Birmania, Amnesty: “Suu Kyi rischia decenni di carcere, i governi dell’Asia restano inerti”
Oltre 860 civili uccisi, 58 dei quali bambini; più di 100mila sfollati solo nello stato di Kayah; almeno 4.800 arresti, tra cui quello della leader di fatto del paese, Aung San Suu Kyi; decessi in carcere a seguito di torture.