Dopo due lunghi processi che hanno individuato tra i componenti del clan di Giuseppe Graviano gli autori materiali del delitto di Paolo Borsellino e degli uomini della sua scorta, nulla è mai stato accertato sui mandanti e sugli scopi, concreti, di quel massacro. Insomma la ‘ndrangheta calabrese avrebbe avuto parte attiva nella stagione delle stragi in Sicilia. Questo è stato accertato (verità processuale) dal tribunale di Reggio Calabria nel 2020. Eppure, a fronte di questo, a Palermo, contestualmente, si è proceduto processando altri imputati “eccellenti” su ben altri presupposti d’indagine: la trattativa Stato-mafia. Una divaricazione evidente che, tuttavia, non ha mai solleticato l’interessa di nessuno, sia di quei giudici subito trasformati in eroiche icone da certa stampa (e in taluni ambiti politici da sempre a caccia di comode verità da utilizzare per scopi altrettanto politici), sia da parte di quell’accrocchio di giornalisti che da sempre campa sulle veline degli stessi magistrati di Palermo e dintorni per medesimi fini speculativi, ovvero screditare ambiti politici di centrodestra. Eppure ci sono le dichiarazioni della moglie di Paolo Borsellino, chiare, nette, raccolte giorni prima della morte del marito, che ancora fanno rumore. “Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, bensì sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo”. Tutto questo accadeva nel mentre l’apparato inquirente del capoluogo siciliano, con il battage mediatico giudiziario che ne conseguiva, si incentrava sulla vicenda del “papello”, con i magistrati Ingroia, De Matteo, Scarpinato ed altri che proclamavano ai quattro venti che tutto era partito dal patto scellerato stipulato tra le istituzioni ed i Corleonesi. Una copia di quel “papello” che poi, si scoprì, successivamente essere falsa, fu consegnata, nel 2009, da Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito, al pm di Palermo. Immediatamente fu avviata un’indagine da cui scaturirono fiumi e fiumi di fango che travolsero anche ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni, Giuseppe De Donno e il senatore Marcello Dell’Utri e finanche il Capo dello Stato Napolitano ed il Ministro dell’interno Nicola Mancino, per fortuna poi assolti dalle infamanti accuse. Quanto alla famosa “agenda rossa”, il diario del giudice Borsellino, occorre ricordare che durante il processo di Reggio Calabria a Graviano l’avvocato Antonio Ingroia di parte civile, ex pm a Palermo, si sentì rispondere dall’inquisito: “andate a guardare nei cassetti della Procura di Palermo”. Insomma innanzi a queste dichiarazioni nessuno si è preso mai la briga di indagare tra le file della magistratura palermitana, e tutto continua a scorrere nel solco di mere ipotesi chiacchierologiche già rivelatesi insussistenti con le sentenze di assoluzione. Perché, ci sarebbe da chiedersi, questa ipotesi di un regolamento di conti interno tra le stesse toghe, non ha mai avuto uno straccio di attenzione? Dopo trenta e passa anni di fallimenti processuali a cosa serve invocare, ancora, come mandanti, pezzi dello Stato deviati come i servizi segreti, escludendone altri? Perché il pregiudizio politico, condito da quello personale e dal livore di quanti hanno fallito nei loro teoremi, deve trovare ancora credito e pubblicità? Assolto anche Dell’Utri e con Berlusconi tirato per i capelli dai pubblici ministeri per accreditare la pista politica, oltre che Giulio Andreotti, perché non si è aperta un’altra via d’indagine anche guardando sotto eventuali “toghe deviate”? Perché questo ordine dello Stato che si erge a potere insindacabile viene apoditticamente escluso da ogni ipotesi collusiva nonostante quello che lo stesso Borsellino ipotizzava poter essere vero? Insomma: si va avanti con lo stesso canovaccio di sempre, tra facce di bronzo contrite, che celebrano il trentennale di quella strage, senza deflettere dai loro teoremi non suffragati da decenni di processi e verifiche. Chi poteva sapere del cambio di percorso e di destinazione di Borsellino con tanto anticipo da poter piazzare un’autobomba laddove neanche si sarebbe potuto parcheggiare perché obiettivo sensibile? Perché escludere a priori che quella fuga di notizie possa essere venuta dagli ambienti giudiziari e perché escludere che la storia falsa del “papello” non sia stata un depistaggio vero e proprio? Interrogativi che resteranno insoluti fino a quando i giudici non renderanno conto di niente a nessuno. Ormai è certo che l’autonomia della magistratura è un paludamento dell’impunità e dell’irresponsabilità dei medesimi e che non ha niente a che vedere con il buon funzionamento della macchina giudiziaria. Un Parlamento di pavidi e un popolo di sprovveduti hanno perso con i referendum un’altra occasione per raddrizzare le cose. E non saranno certo le commemorazioni di eroi come Falcone e Borsellino a cambiare questa sconcezza insopportabile tutta italiana.
*già parlamentare