LONDRA – Il Parlamento inglese ha detto no anche all’ultimo tentativo della premier Theresa May di salvare, dopo alcune concessioni ottenute lunedì da Bruxelles, l’accordo negoziato con l’Ue che prevede che la Brexit scatti il 29 marzo. Tre sono i possibili scenari secondo l’Ispi.
Hard Brexit: è lo scenario del ‘no deal’ in cui il Regno Unito uscirebbe dall’Ue senza un accordo che stabilisca cosa succede dopo. Westminster vota oggi se intende davvero perseguire l’opzione più drastica su Brexit. In questo scenario non ci sarebbe un periodo di transizione, né un ‘backstop’ che risolva la questione dell’Irlanda del Nord, aprendo così la strada a una possibile recrudescenza tra gli unionisti e i nazionalisti irlandesi. Dal 29 marzo Londra sarebbe anche fuori dal mercato unico. Si applicherebbero dunque le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) e tornerebbero i dazi e i controlli alla frontiera su molte merci, incluse quelle ad alta deperibilità, sia nel commercio con i 27 Paesi Ue che con tutti i Paesi extra-Ue con cui l’Ue ha siglato accordi commerciali. Molte incognite graverebbero sul futuro dei 3,7 milioni di cittadini europei presenti in Gran Bretagna e sull’1,2 milioni di britannici che vivono nell’Ue. Soprattutto negli ultimi mesi, la Commissione europea e i vari Paesi membri hanno presentato dei ‘contingency plans’, ovvero piani d’emergenza da implementare in vista di un no deal. Questi piani danno priorità a quelle questioni che toccano più direttamente i cittadini europei, come la loro mobilità, i servizi sociali e settori sensibili come quello dei servizi finanziari e dei trasporti (a partire da quello aereo), principalmente attraverso meccanismi di proroghe. Ma è la stessa Commissione a riconoscere che questi piani non possono in alcun modo annullare gli effetti di una hard Brexit, soprattutto nel periodo immediatamente successivo.
Proroga: domani è previsto il voto di Westminster sulla richiesta di proroga a Bruxelles. In questo caso Londra utilizzerebbe quanto previsto dall’articolo 50 del Trattato di Lisbona, ovvero che la scadenza dell’uscita di un Paese dall’Ue possa essere prorogata all’unanimità dai rimanenti Paesi membri. Diversi Paesi europei – tra cui la Germania – si son già espressi positivamente rispetto a una opzione di questo tipo che allontanerebbe, almeno nel breve periodo, lo spettro della hard Brexit. La Francia di Macron ha comunque precisato che potrebbe bloccare la richiesta di proroga se da Londra non arrivassero segnali chiari in merito al piano che intende seguire dopo averla incassata. Punto dirimente sarà la questione del periodo coperto dalla proroga, durante il quale il Regno Unito rimarrebbe comunque un Paese membro dell’Unione europea. A rigor di logica non dovrebbe trattarsi di una breve proroga, perché verosimilmente Londra non sarà in grado di sciogliere nel giro di qualche settimana o mese quei nodi che non è riuscita a sciogliere in quasi due anni, né tanto meno avrà il tempo di rinegoziare un nuovo tipo di accordo con Bruxelles. Ma il quadro è complicato dalle elezioni europee di maggio. Nel caso di una lunga proroga, Londra dovrebbe andare alle urne per eleggere i propri rappresentanti al Parlamento europeo, i cui seggi tornerebbero a essere 751, mentre al momento è previsto che vengano ridotti a 705 proprio per tenere conto dell’assenza di rappresentanti britannici. Tutto ciò a meno che Bruxelles non trovi un qualche escamotage giuridico per il quale Londra sia ‘esentata’ dall’eleggere i suoi rappresentanti durante il periodo di proroga.
Ritiro unilaterale: il governo britannico potrebbe ritirare la notifica di Brexit in maniera unilaterale in qualsiasi momento prima dell’uscita prevista per il 29 marzo, annullando di fatto la Brexit. Nei mesi scorsi la Corte di giustizia europea ha colmato una lacuna dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona chiarendo che Londra può procedere al ritiro unilaterale. Questo avrebbe il vantaggio per il Regno Unito di non far dipendere la decisione finale dall’accettazione o meno da parte di Bruxelles, come nel caso della proroga. Tuttavia si tratterebbe di una decisione politicamente molto sensibile per Londra, perché equivarrebbe a sconfessare il risultato del referendum del 2016. In questo scenario, Theresa May non vedrebbe la propria leadership rimessa in discussione dai suoi stessi compagni di partito, perché le regole interne ai Tories stabiliscono che occorrono almeno 12 mesi prima che si possa muovere una nuova mozione di sfiducia alla premier, dopo quella da lei superata lo scorso 16 gennaio. Ma il suo governo potrebbe comunque cadere e la stessa May potrebbe decidere di dimettersi autonomamente. Nell’ipotesi di ritiro da Brexit e di elezioni anticipate potrebbe farsi concretamente strada l’idea di un nuovo referendum, su cui i laburisti di Corbyn sembrano oggi più possibilisti che in passato. In campo conservatore, si riaprirebbe la disputa sulla leadership, nella quale potrebbe prevalere Boris Johnson, un convinto sostenitore della hard Brexit. Secondo recenti sondaggi le spaccature all’interno dei Tories non hanno rafforzato a sufficienza il Labour e i due partiti potrebbero trovarsi testa a testa. Ciò darebbe luogo a un ‘Parlamento appeso’, in cui né i conservatori, né i laburisti disporrebbero da soli di una chiara maggioranza. Una situazione di incertezza politica che renderebbe il percorso di Brexit ancora più complesso.
(LaPresse)