Camorra casertana, lite Schiavone-Panaro sulla cassa

Casal di Principe. Salvatore Venosa: il figlio di Sandokan incolpò Francesco degli stipendi non incassati da Iovine

CASAL DI PRINCIPE – Dalle scommesse online i soldi per pagare gli ‘stipendi’ ai detenuti al 41 bis. E a tenere in mano i cordoni della borsa tra il 2011 e il 2012, quando la cassa del clan era ancora un’entità strutturata, sarebbe stato il 34enne Francesco Panaro, figlio di Nicola ‘o camardone, ruolo che avrebbe ricoperto, però, fino alla scelta di Carmine Schiavone, figlio di Sandokan, di prendere il suo posto.

A raccontarlo alla Dda è stato il collaboratore di giustizia Salvatore Venosa. “Oreste Iovine mi riferì di aver avuto un colloquio, sono quasi sicuro che si trattasse di Carmine, ma non escludo che si poteva trattare anche di Emanuele Schiavone, nel quale disse che il padre Antonio ‘o ninno non riceveva più i soldi che gli spettavano pur stando al 41 bis. Si trattava di 2mila e 500 euro. Carmine – ha informato il pentito – si giustificò sostenendo che la cassa era tenuta in quel momento da Panaro. Dopo l’incontro, Carmine tolse a Panaro l’incarico di gestire gli stipendi, perché riteneva che lo stesso si rubava i soldi e si prese egli stesso il compito”.

A confermare i rapporti tesi tra i due è stato anche Eduardo Di Martino: “Nel corso degli incontri che tenevo con la compagine facente capo a Carmine Schiavone, questi si era più volte lamentato di Panaro definendolo un furbo e una persona poco affidabile, poiché si sarebbe trattenuto per sé i soldi provento delle estorsione. Queste le cose che ho appreso direttamente da Carmine. Riferiva di averlo messo da parte proprio per la sua inaffidabilità. Aggiungo che Carmine disse di avergli dato la custodia di alcune armi sempre riconducibili al clan, tra le quali vi era sicuramente un kalashnikov e che lo stesso Panaro – ha aggiunto Di Martino – le aveva fatte sparire giustificandosi che erano state rubate da ignoti”.

Successivamente, preso atto degli attriti che si erano venuti a creare tra i figli dei due storici esponenti del clan, Gianluca Bidognetti, ha ricostruito Venosa, diede a Panaro il compito “di curare gli interessi del suo gruppo nella zona di Castelvolturno, Parete, Lusciano e in parte anche a Casale”.

Il collaboratore di giustizia con i magistrati della Dda ha parlato anche del business delle scommesse online sul quale aveva disteso i tentacoli la cosca. “Nel 2011, sentito il profumo di denaro derivante dalla gestione delle scommesse e approfittando di un conflitto creatosi tra Luigi di Giugliano, proprietario del sito, e tale Vittorio, ho manifestato l’interesse di entrare nell’affare a Giovanni Di Nardo, fratello di Michele, fidanzato di mia sorella Rossella Venosa. Ricordo – ha fatto sapere il pentito – che fu proprio in quell’occasione che gli chiesi di fornirmi la piattaforma promettendogli il mio interessamento per risolvere il problema creatosi con Vittorio. Gigino infatti temeva la reazione del clan che spalleggiava Vittorio avendo già subito un’aggressione da parte di Mirko Ponticelli e Francesco Panaro. Il conflitto si era determinato a seguito di vari mancati pagamenti da parte di Gigino a Vittorio conseguenti alle scommesse ordinate e non eseguite. […] La quota spettante ai Casalesi – ha dichiarato Venosa – variava a seconda delle giocate e veniva ritirata da Panaro e Ponticelli che all’epoca si occupavano della gestione della cassa”.

Nel business delle scommesse il collaboratore ha inserito pure “Michele Di Nardo, Giuseppe, ossia il cognato, Giuseppe Del Vecchio, Raffaele ‘101’, Pasquale o Gennaro Vanacore, Giovanni di Cesa ed altri”. Era un business che faceva gola a tanti e risultava molto redditizio, anche perché, ha chiarito il pentito, “le corse dei cani e dei cavalli hanno una frequenza diversa rispetto alle partite di calcio e quindi un numero di giocate superiore. Lo stesso si dica per il ‘dollaro poker’ con giocate praticamente senza alcuna soluzione di continuità. Ne sono a conoscenza – ha aggiunto – in quanto personalmente dal dicembre 2011 ed ancora prima quando era titolare insieme ad Alberto De Angelis di una sala betting in cui erano installati computer fissi e portatili da cui partivano le giocate da parte dei clienti, ho aiutato Vittorio ad imporre agli esercizi pubblici, tra cui bar e sale scommesse, l’installazione del sito da noi gestito”.

Le dichiarazioni di Venosa sono state inserite dalla Dda nell’inchiesta, realizzata dai carabinieri di Casal di Principe, che ora rischia di portare a processo Panaro, assistito dall’avvocato Alfonso Quarto, con l’accusa di associazione mafiosa.

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