Clan dei Casalesi, a disposizione del figlio di “Sandokan” oltre un milione di euro al momento dell’arresto

Da collaboratore di giustizia Nicola Schiavone ha rivelato il nome degli uomini a cui aveva affidato la sua cassa personale

Nicola Schiavone, primogenito di Sandokan e collaboratore di giustizia

Un fondo personale di oltre un milione di euro: è la cifra che Nicola Schiavone, primogenito del capoclan dei Casalesi Francesco Sandokan, aveva a disposizione prima del suo arresto. E’ una delle prime informazioni che il mafioso ha dato nel 2018, quando ha iniziato a parlare con i magistrati dell’Antimafia per tentare il complicato iter di collaborazione con la giustizia. E se il suo percorso, in questi 6 anni, si è ormai consolidato, quello del padre, che aveva preso il via soltanto lo scorso marzo, si è ormai arenato, spingendo la Procura a interrompere con lui il dialogo e a rispedirlo al 41 bis.

Sangue e soldi: sono i principali temi su cui dagli ex mafiosi ci si aspetta informazioni. E il primogenito di Sandokan, al via del dialogo con gli inquirenti della Dda di Napoli,, aveva subito indicato gli imprenditori che avrebbero gestito la sua cassa personale. “Avevo una liquidità fissa che oscillava fra un milione e duecentomila e un milione e trecentomila euro”. Era una contabilità separata da quella della cassa comune del clan dei Casalesi di cui ne era stato al vertice. Quando la cassa comune aveva difficoltà, ha dichiarato Schiavone, “provvedevo ad anticipare personalmente con la mia parte economica”. Insomma, copriva con propri quattrini per garantire il pagamento delle spettanze agli affiliati.

Il figlio del capoclan ha iniziato a parlare con i magistrati dell’Antimafia nel 2018. E nel corso dei suoi primi interrogatori riferì che quando venne arrestato aveva 600mila euro in contanti “in mano” a tali “Mastrominico e a Capoluogo” e in più aveva “anticipato 450mila euro su un lavoro a Casal di Principe e avevo anticipato altri 250mila euro per altr interventi […] Li avevo anticipati nella cassa, li dovevo riscuotere. Ma erano personali”.

Insomma, tra cash e denaro che doveva recuperare, quando entrò in prigione, nel 2010, aveva una somma, raccontò agli inquirenti, “che mi consentiva di vivere, cioè per tutta la carcerazione, anche per l’ergastolo, senza la rimessa di nessuno. Questo non è accaduto”. Schiavone si lamentò del fatto che chi aveva in mano quel denaro “non si è fatto avanti”. “Magari – ha aggiunto – aspettava che fosse mia moglie a dire qualcosa… ma mia moglie non li conosceva, perché io non l’ho mai messa a conoscenza. […] In un modo o nell’altro, non si sono fatti avanti come avrebbero dovuto al mio arresto e qualcuno ha evidentemente ritenuto di prenderli lui”.

Tra i soggetti che avrebbero avuto questo denaro, Schiavone, oltre a Gennaro Mastrominico e Capoluogo, ha indicato anche Dante Apicella detto Damigiana e Paolo Corvino. In particolare, ha riferito che Capoluogo e Mastrominico gestivano nel 2010 mezzo milione di euro su suo mandato, avendoli a un imprenditore che doveva fare degli appartamenti. “Soldi che diedi loro in contanti, in un colpo solo”.
Tale Paolo Corvino, invece, ha riferito Schiavone, avrebbe avuto a disposizione una somma che poteva oscillare dai 180mila ai 300mila, “in base alle riscossioni delle operazioni”.

Il figlio del capoclan ha inoltre detto di aver affidato pure al cugino, Nicola Schiavone ‘o russ, circa 100mila euro. Dante Apicella, infine, avrebbe “avuto in mano 750mila euro”, cifra che il collaboratore di giustizia calcola avendogli assegnato, sostiene, “un lavoro di 7 milioni e mezzo di euro”. “Mi doveva dare il 10 per cento, una parte andava alla cassa comune, cioè 350mila euro, e 400mila dovevamo dividerli io e Nicola Panaro, 150mila lui e il resto io: da queste entrate dovevano arrivare gli anticipi alla cassa del clan”.

Queste informazioni, ormai datate, hanno ripreso interesse perché depositate in occasione della recente testimonianza fatta proprio da Nicola Schiavone nel processo innescato dall’indagine che ha coinvolto Dante Apicella (che ha scelto il rito abbreviato ed è già stato condannato) e gli imprenditori Nicola e Vincenzo Schiavone (a dibattimento), accusati di aver rappresentato gli interessi del clan dei Casalesi inserendosi negli appalti di Rete Ferroviaria Italiana e in quelli per gli scavi per installare le reti elettriche e di telecomunicazioni. Corvino, Mastrominico e Capoluogo, indicati dal collaboratore di giustizia, sono estranei al processo dove ha testimoniato Schiavone e sono da ritenere innocenti fino a un’eventuale sentenza di condanna rispetto alle accuse mosse dal pentito

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