Capaci, 26 anni fa la strage di Mafia che scosse il Paese

Oggi è l’anniversario della morte del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e di parte degli uomini della scorta. Rimasero uccisi grazie all’esplosione di mille chili di tritolo piazzati dalla mafia

Foto LaPresse

PALERMO (Gennaro Scala) –  Quando il detonatore fece esplodere il tritolo piazzato sotto l’A29, all’altezza dello svincolo di Capaci, lo scoppio scosse l’intero Paese, dalle fondamenta. Era il 23 maggio del 1992, 26 anni fa, quando Cosa nostra con quella bomba uccise il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo.

L’attentato di Capaci

Orologi sincronizzati. Per ‘l’attentatuni’ Cosa nostra seguì il corteo fin da quando si mosse dall’aeroporto di Punta Raisi. L’aereo Roma Palermo era atterrato alle 16 e 45. Tre le auto che partirono dallo scalo. In una, una Croma Bianca, Falcone, la moglie e l’autista Giuseppe Costanza. Nella seconda auto viaggiavano Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo. Nella terza c’erano Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Sotto quella bretella stradale c’era una tonnellata di tritolo che la mafia si era procurata grazie alle barche decine che facevano pesca a strascico. Capitava spesso che nelle reti ci finissero, oltre ai pesci, bombe aeree inesplose risalenti alla Seconda Guerra Mondiale. Quando Giovanni Brusca (sanguinario killer dei Corleonesi di Totò Riina e oggi collaboratore di giustizia) azionò il telecomando la strada si aprì come un cratere vulcanico. L’auto in cui viaggiava Schifani fu quella colpita per prima, la Croma del giudice e della moglie fu invece investita dal muro di detriti dell’esplosione. Solo chi si trovava nella terza auto riuscì a salvarsi. Non morì subito Giovanni Falcone. I soccorsi fecero in tempo a trasferirlo d’urgenza in ospedale, ma il cuore del giudice cessò di battere poco dopo le 19.

La ferita al cuore dell’Italia

Quel pomeriggio l’Italia fu colpita nel profondo da Cosa nostra che rigirò la lama nelle carni del Paese 57 giorni dopo. Sì, perché il 19 luglio del 1992 una Fiat 126 rubata, imbottita con cento chili di tritolo, esplose in via D’Amelio a Palermo, all’altezza del civico 21. Lì c’era il giudice Paolo Borsellino che perse la  vita insieme ad altri cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Borsellino si era recato in via D’Amelio per andare a trovare la madre. Qualcuno stava seguendo le sue mosse. A quasi trent’anni dalla ‘notte della Repubblica’ ci sono ancora degli interrogativi irrisolti. Quello che resta sono l’esempio e la memoria di quei giorni, perché la notte possa non calare più.

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