MILANO – “Umanamente, mi dispiace molto. Vivo un conflitto interiore, come persona e come magistrato. Comprendo il peso di una pena del genere: quando ho chiesto 7 anni e 11 mesi, sapevo che c’era il rischio di una condanna più alta”. Lo ha detto in un’intervista a ‘La Repubblica’ Michele Permunian, Pm dell’inchiesta su Mimmo Lucano.
“Durante gli anni dell’università collaboravo con una comunità missionaria in Mozambico. Sono stato in Africa due volte, ho toccato con mano la miseria e i flussi di migranti. L’accoglienza è un dovere, nessuno vuole criminalizzarla”, ha aggiunto. “Avevo fatto anche una ‘requisitoria-b’, in cui arrivavo a un conteggio finale di 15 anni, ma preferivo fosse il tribunale a pronunciarsi. Prudenzialmente mi sono tenuto basso. La pena ora sembra molto alta ma se si leggono il capo d’imputazione e i reati contestati, si scopre che non lo è”, spiega il Pm.
A proposito dell’appropriatezza o meno della condanna, a suo giudizio, Permunian spiega: “Le strade erano due. Se l’impianto accusatorio fosse caduto, la pena sarebbe stata al massimo di 4 o 5 anni. Ma nel caso di Lucano le accuse più gravi hanno retto. Si sono create quindi le condizioni per applicare il profilo della continuazione, l’articolo 81 del codice penale”. Per il Pm “questo processo è stato caricato di valore politico, anche se si sono alternati tre governi. Non era sotto processo l’accoglienza, ma la violazione di norme di legge. Se usi il denaro dello Sprar per fini privati, si configura un reato. Se non restituisci i soldi in eccedenza, è un reato”.
(LaPresse)