Clan Picca, i tentacoli dei Di Tella sul business dei parcheggi abusivi

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Carmine Di Tella, Raffaele Di Tella ed Aldo Picca

CARINARO – Lo spaccio di droga, le estorsioni e il business della vigilanza privata: sono i principali settori su cui il gruppo mafioso guidato da Aldo Picca, sostiene la Dda di Napoli, ha disteso i suoi tentacoli. Ma alcuni componenti della gang del boss di Teverola si sarebbero interessati anche ad altri affari per racimolare denaro. A riferirlo al pubblico ministero Simona Belluccio della Direzione distrettuale antimafia partenopea, nei mesi scorsi, è stato il collaboratore di giustizia Francesco De Chiara. Arrestato nel blitz dei carabinieri di Caserta volto a disarticolare la cosca diretta da Picca, nella quale si sarebbe occupato di estorsioni e della gestione dello spaccio di narcotici – supervisionato da Salvatore De Santis – ha deciso di rompere il vincolo di omertà che lo legava a quell’organizzazione e ha fornito diverse informazioni sugli affari intrapresi dai suoi ormai ex (presunti) sodali. Tra questi, ha indicato Carmine Di Tella che, insieme al padre Raffaele, si sarebbe occupato della gestione dei parcheggi abusivi nei pressi di un ristorante nella zona di via Pirozzi, ad Aversa, al confine con Carinaro.

Un altro affare che i Di Tella avrebbero condotto riguarderebbe la gestione di una piazza di spaccio a Carinaro. Picca, secondo il pentito, aveva indicato Raffaele Di Tella, alias Lelluccio ’a mossa, come referente per tutte le attività illecite sul territorio di Carinaro. A dimostrazione della sua adesione al gruppo, il collaboratore sostiene che Lelluccio percepiva, per volere del boss, uno stipendio mensile. Parcheggi e droga a parte, secondo De Chiara, i Di Tella erano coinvolti anche nel business delle onoranze funebri. Carmine e Raffaele Di Tella sono a processo con l’accusa di associazione mafiosa. Entrambi sono stati coinvolti nell’inchiesta che, a settembre dell’anno scorso, ha portato all’arresto di Picca, De Chiara e di altri 33 indagati. Naturalmente i Di Tella e il boss di Teverola devono considerarsi innocenti fino a un’eventuale sentenza di condanna definitiva, e le dichiarazioni del pentito non rappresentano una verità assoluta, ma andranno riscontrate e saranno oggetto di analisi nel corso del processo in cui sono state depositate dal pubblico ministero.

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