CASAL DI PRINCIPE – Tra le pieghe della vasta inchiesta della Dda che ha decapitato la nuova reggenza della fazione Schiavone, emerge un episodio che unisce la drammaticità di una “morte bianca” alla spietata logica del racket. È la storia di un infortunio mortale trasformato, secondo gli inquirenti, in una leva per una tentata estorsione da quasi un milione di euro, orchestrata da Pasquale Apicella con il concorso dei familiari della vittima. Tutto ha inizio il 22 febbraio 2023. Presso un’azienda agricola di Cancello ed Arnone, perde la vita Luigi Schiavone, cognato di Pasquale Apicella. In un contesto normale, la vicenda seguirebbe l’iter dei risarcimenti assicurativi e delle indagini dell’ispettorato
del lavoro. Ma nel territorio controllato dai Casalesi, la giustizia segue binari diversi. Pochi giorni dopo il funerale, il 6 marzo, la sorella di Apicella, Maria Apicella, e le figlie della vittima, Angela e Valentina Ester Schiavone, si riuniscono nell’abitazione del boss. È qui che, secondo le intercettazioni ambientali, viene emessa la “sentenza” del clan: il datore di lavoro deve pagare un “ristoro ulteriore” rispetto a quello previsto dalla legge. La cifra fissata da Apicella è esorbitante: tra i 700 e gli 800mila euro.
“Zio, non farti arrestare”: il timore delle nipoti. Le intercettazioni catturano un dialogo surreale. Le nipoti, pur consapevoli della caratura criminale dello zio, oscillano tra il desiderio di ottenere denaro e il terrore di vederlo finire in manette. “Zio, però tu stai attento… mica ti fai arrestare?”, implorano le giovani. Apicella, con la sicumera del capo, le liquida: “Non ci pensare a me, non ti preoccupare”. Il piano B, proposto dalle stesse donne nel caso in cui la somma in contanti non fosse stata versata, era l’imposizione di due posti di lavoro fittizi. La richiesta era precisa: assunzione presso l’azienda o uno studio professionale con uno stipendio di 1500 euro mensili ciascuna, garantito fino a dicembre. Un vero e proprio “vitalizio” forzoso imposto sotto la minaccia delle armi e del nome del clan. Pasquale Apicella non si limita alle parole. I dati delle celle telefoniche confermano che nei giorni 6, 8, 9 e 14 marzo 2023, il boss si è recato a Cancello ed Arnone, presso l’azienda. Cirillo, in un disperato tentativo di difesa, arriva a chiedere che agli incontri partecipino anche le donne della famiglia (la moglie e la sorella di Apicella), sperando che la presenza femminile possa mitigare la violenza dell’uomo. Ma Apicella, parlando con il parente Oreste Schiavone, definisce l’imprenditore un “vigliacco” proprio per questa sua richiesta, ribadendo la sua intenzione di passare alle vie di fatto: “Gli feci capire che se ti devo picchiare, ti picchio”.
L’episodio contestato dalla Dd ai quattro indagati (Pasquale e Maria Apicella, Angela e Valentina Ester Schiavone) configura una tentata
estorsione aggravata dal metodo mafioso. Per gli inquirenti, non si trattava di una legittima pretesa risarcitoria, ma di una manifestazione della forza intimidatrice dei Casalesi. La resistenza opposta dall’imprenditore, che non ha ceduto alle richieste di assunzione né al versamento della maxi-somma, ha impedito che il reato venisse consumato, ma ha esposto la vittima a un rischio altissimo. Se c’è un episodio che cristallizza la figura di Pasquale Apicella come arbitro assoluto della vita civile e commerciale a Casal di Principe, è il suo intervento nel recupero crediti per conto di Luigi Corvino. In un mondo dove lo Stato è percepito come lontano o inefficiente, il clan si propone come agenzia di servizi violenta, trasformando una controversia economica in un incubo di minacce e intimidazioni. Luigi Corvino vanta un credito nei confronti di un uomo per una fornitura di materiale edile. Invece di adire le vie legali o tentare una mediazione civile, dopo una violenta lite con il debitore, Corvino decide di “giocare la carta” del clan. Si rivolge ad Apicella, riconoscendogli implicitamente il ruolo di capo capace di imporre il proprio volere con la forza.
L’intervento di Apicella non è quello di un mediatore, ma quello di un boss che deve riaffermare il prestigio del sodalizio. Non potendo rintracciare immediatamente il debitore, il boss convoca il fratello, intimandogli di portargli Raffaele “al suo cospetto”. Le parole intercettate non lasciano spazio a interpretazioni: Apicella minaccia di compiere una “mala azione” e di fare del male fisico all’uomo. È una frase che, secondo gli inquirenti, non è una semplice iperbole verbale, ma una minaccia reale e concreta fondata sulla capacità del clan di esercitare violenza gratuita sul territorio. Per questo episodio, Apicella e Corvino sono accusati di tentata estorsione in concorso, con l’aggravante di aver agito per agevolare il clan. “lo prendo e lo azzecco a terra” la frase minacciosa.




















