Uno dei punti centrali della riforma della giustizia, sulla quale gli italiani saranno chiamati a pronunciarsi con il referendum, è la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici. Per capire se si tratti di una scelta necessaria, abbiamo coinvolto Alessandro D’Alessio, oggi procuratore della Repubblica a Castrovillari, in Calabria, ed ex pm della Direzione distrettuale antimafia di Napoli. Un confronto per approfondire un tema complesso con chi la giustizia l’ha vissuta e la vive dall’interno, ricoprendo ruoli di prima linea.
Alla luce di questa esperienza, l’attuale assetto presenta davvero commistioni tali da incidere sull’imparzialità delle decisioni o sulle garanzie offerte ai cittadini?
Faccio questo lavoro da quasi quarant’anni e, mi creda, non mi è mai capitato di assistere a commistioni tra pubblici ministeri e giudici tali da creare parzialità. A chi sostiene il contrario chiedo sempre di presentarmi un caso concreto in cui si possa affermare che un giudice sia stato influenzato dall’accusa. E finora non mi è stato ancora raccontato.
Chi sostiene la separazione delle carriere afferma che il cittadino sarebbe più garantito, perché ci sarebbe una figura davvero terza a valutare il suo caso. Oggi non è già così?
Questa terzietà esiste già. Lo dimostrano anche procedimenti recenti che hanno riguardato esponenti politici. Il caso del ministro Matteo Salvini è emblematico: c’era un pubblico ministero che sosteneva l’esistenza di reati gravi e un giudice che ha detto no, non condividendo l’impostazione della procura. Si è arrivati, pochi giorni fa, fino in Cassazione, che ha confermato l’assoluzione.
E anche i dati le danno ragione.
Se non vado errato, esiste una percentuale molto alta – intorno al 70-80 per cento – di assoluzioni rispetto alle richieste di condanna avanzate dalle procure. Possiamo ricordare anche il caso del sottosegretario Delmastro: un pubblico ministero che chiedeva la sua assoluzione e un tribunale che, in primo grado, invece, lo ha condannato. Questo dimostra che i giudici sono già oggi indipendenti dall’accusa.
In sostanza, questa riforma non andrà a migliorare la vita dei cittadini…
Se devo dire se questa riforma avrà ricadute positive e concrete sulle esigenze degli italiani, la risposta è no: saranno pari a zero. I cittadini chiedono una giustizia più veloce. Il processo civile, così come quello penale, dovrebbe durare poco. Questo è il vero problema del sistema. E ciò su cui i cittadini saranno chiamati a esprimersi non ha nulla a che fare con questo obiettivo. Anzi, potrebbero esserci dei rischi.
Quali sono, secondo lei, quelli più immediati?
C’è un rischio molto serio e immediato: la creazione, per il pubblico ministero, di un rapporto sempre più simbiotico con la polizia giudiziaria. Un rapporto che rischia di schiacciare non solo i giudici, ma anche gli avvocati. Ci troveremmo di fronte a un pubblico ministero che non deve rendere conto a nessuno.
E sul piano più generale, istituzionale, quali pericoli intravede?
Il rischio potenziale, quello futuro, è ancora più grave. È vero che nella riforma non c’è scritto esplicitamente ciò che temono i suoi oppositori, ma questa appare come il primo passo verso lo sganciamento del pubblico ministero dalla giurisdizione. E qui il pericolo diventa enorme: un pubblico ministero che non è più agganciato alla giurisdizione finisce inevitabilmente per rispondere a un altro potere, che potrebbe essere quello esecutivo. Il giudice, per essere davvero libero, deve poter dire serenamente se una persona ha torto o ragione. Un magistrato che non è libero, invece, deve rispondere a qualcuno. E allora mi chiedo, e chiedo ai cittadini: vale davvero la pena varare una riforma per risolvere un problema che, di fatto, non esiste?
Sostiene quindi che la riforma non incida neppure sulle criticità indicate dai sostenitori del Sì?
Molti avvocati che oggi sono tra i promotori del Sì, in realtà, non si lamentano dei processi, dei giudizi di Appello o della Cassazione. Il problema, per loro, credo, è l’indagine preliminare, o meglio il rapporto tra pubblico ministero e giudice in quella fase iniziale. Con l’attuale struttura, il giudice chiamato a valutare una misura cautelare si trova davanti una sola ipotesi ricostruttiva, tracciata da una sola parte. Ed è inevitabile che sia così, perché va tutelata la segretezza dell’indagine. Questo è il vero nodo critico ed è un problema che nasce all’origine della funzione, non dalla mancata separazione delle carriere.
I dati dicono che i passaggi di magistrati da pm a giudice e viceversa sono rarissimi. È così anche per la sua esperienza?
Assolutamente sì. È una procedura complessissima che quasi nessuno intraprende, anche perché comporta penalizzazioni enormi. Per esempio, se oggi volessi passare a fare il giudice, probabilmente dovrei andare fuori regione. Parliamo forse dell’uno-due per cento dei magistrati. Posso però dire una cosa con convinzione: i migliori magistrati che ho incontrato sono proprio quelli che hanno cambiato funzione, perché questo accresce la sensibilità culturale. Più che questa riforma, per migliorare la giustizia bisognerebbe investire in una formazione comune.
C’è chi sostiene che la magistratura abbia perso autorevolezza e che questa riforma sia figlia proprio di quel contesto, oltre che di una volontà politica di “punirla”. Un tema che si lega anche alla struttura del Csm.
Noi, come magistratura, in parte ce lo siamo meritato. A volte abbiamo dato una cattiva prova di noi stessi e vicende come quella dell’hotel Champagne (il caso Palamara, ndr) sono lì a ricordarcelo. Detto questo, mi chiedo: ingegneri, geometri, commercialisti hanno organi di rappresentanza sorteggiati o eletti? Le elezioni servono a mandare a rappresentare qualcuno sulla base di idee e progetti. Sostituire tutto con il sorteggio è penalizzante, soprattutto quando si parla di un organo di rilevanza costituzionale come il Csm.
Uno dei punti più discussi riguarda l’autodisciplina e i nuovi organi previsti dalla riforma. Che valutazione dà?
Il male peggiore è rispondere a una patologia con un’altra patologia. Con la riforma ci sarebbe un organo esterno di autodisciplina, contro le cui decisioni non sarebbe possibile ricorrere se non davanti allo stesso organo. Il rischio gravissimo è quello di creare, per la prima volta, sentenze disciplinari non impugnabili davanti alla Corte di Cassazione.
La politica rivendica la legittimità della riforma perché espressione della volontà popolare. È un argomento convincente?
La politica ha piena legittimazione democratica e chi viene eletto ha il diritto di portare avanti i propri progetti. Questo è indiscutibile. Ma leggendo la riforma nel suo complesso emerge una valutazione, da parte della politica, non del tutto positiva sull’operato della magistratura.
Chi sostiene il No afferma che, se il referendum dovesse passare, cambierebbe il ruolo del magistrato e verrebbero ridotte le garanzie per i cittadini. È così?
Il magistrato deve verificare se è stata violata una regola. Non so se nella storia recente ci siano state reali invasioni di campo della magistratura nella sfera politica. Se la politica vuole riaffermare il proprio primato, può farlo dando a se stessa nuovo prestigio, non indebolendo la magistratura. Con questa riforma, invece, esiste il rischio concreto di un’invasione opposta: quella della politica nella magistratura.
I sostenitori della riforma parlano di un giudice più distante dal pm. Non è un vantaggio?
È vero che il giudice sarebbe più distante dal pubblico ministero, ma potrebbe essere schiacciato non dalla colleganza, bensì dalla forza del potere che ha di fronte. I condizionamenti non arrivano solo dalla vicinanza personale. Essere parte dello stesso corpo significa, per il pubblico ministero, non dover puntare necessariamente alla condanna, ma ricordarsi che il suo compito è applicare la legge. Io sono una parte dello Stato, con competenze investigative che il giudice non deve avere, ma resto un magistrato.
Quanto è difficile spiegare questa riforma ai cittadini?
È estremamente complicato, perché si tratta di una questione altamente tecnica. Oggi il pubblico ministero non ha come obiettivo quello di ottenere a tutti i costi la condanna di un cittadino. Proprio perché appartiene alla giurisdizione, il suo compito è applicare la legge al caso concreto. Nel momento in cui mi si dice: tu non sei più come il giudice, sei qualcosa di diverso, il rischio è che il mio compito diventi quello di ‘avere ragione’. E un pubblico ministero che ha come obiettivo la conferma della propria tesi non potrà mai essere davvero imparziale.



















