PARETE – Campanilismo e camorra. Era il 2005: la parte criminale del paese, di matrice bidognettiana, non guardava di buon occhio quella di Casale. E’ lo scenario raccontato ai giudici da Nicola Schiavone, primogenito del capoclan Francesco Sandokan e dal 2018 collaboratore di giustizia. Ed è proprio in quel clima di scontro e rivalità che ha collocato il raid al bar Penelope. Rispondendo alle domande del pm Maurizio Giordano ne ha parlato la scorsa settimana durante il processo in corso a S. Maria C.V. teso a far luce sui tentacoli distesi dalla sua cosca in provincia di Modena.
Se Schiavone organizzò una spedizione in quel bar di Parete fu per vendicare il fratello Ivanhoe. “Era andato ad una festa di 18 anni a Parete con i suoi amichetti, all’epoca tutti minorenni, bravi ragazzi. Andavano ancora a scuola. All’epoca ci stava invidia tra Casale, Parete, Lusciano e Villa Literno. Siccome mio fratello era di bella presenza e aveva successo con le ragazze, provavano un po’ di invia e da dietro gli fu data una manganellata, credendo che essendo loro di Parete e stando in quel periodo Raffaele Bidognetti sulla zona potevano fare quello che volevano”. Il fratello di Nicola Schiavone venne portato in ospedale. “Lo raggiunsi subito con il timore che fosse successo qualcosa di grave. Se avessi saputo che c’era stata una lite non sarei andato, perché lì c’era la polizia”.
Il giorno successivo il primogenito di Sandokan contattò Gianluca Bdiognetti: “Gli dissi: fammi una cortesia, vai da tuo fratello Raffaele e digli che mi deve dare soddisfazione. Feci il passaggio camorristico, lui stava a Parete e lui mi doveva dare soddisfazione: doveva convocare chi era stato e davanti a noi ci doveva togliere questo smacco”. Ma Gianluca Bdigonetti non avrebbe avvertito il germano. Così Schiavone scelse di agire in autonomia: “Siccome mi aveva visto la polizia sull’ospedale decisi soltanto di andare da questi ragazzi nel bar che frequentavano per fargli una mazziata, però, giustamente, conoscendo l’ambiente, andammo armati, perché sostanzialmente potevamo avere qualche scontro. Feci le macchine e andammo. Bloccammo le due uscite del bar e tutti quelli che stavano lì le presero. Era un fatto simbolico – ha spiegato – perché loro erano di Parete e frequentavano quel bar. Se non fossi andato in ospedale, anziché procedere con una mazziata avremmo ucciso chi si era permesso di fare quella cosa”.
In relazione a tale raid sono processo Antonio Caliendo, Paolo Graziano, Domenico, Franesco e Adriano Puocci. A valutare la loro posizione è il collegio presieduto dal giudice Francesco Rugarli.
I Bidognetti, però, non incassarono il colpo senza reagire. Per ritorsione diedero fuoco al bar Matteotti davanti al municipio di Casal di Principe. A placare gli animi intervenne Giuseppe Peppinotto Caterino che pagò i danni mettendo la parola fine allo scontro.