CASAL DI PRINCIPE – Se si fosse rivelata una collaborazione genuina, solida, se Francesco Sandokan Schiavone fosse stato realmente convinto di recidere ogni suo legame con la mafia, lo Stato, al netto delle informazioni che da lui avrebbe potuto raccogliere per avviare nuove indagini, si sarebbe trovato in mano un’arma mediatica senza precedenti: la persona che aveva incarnato per oltre 30 anni i principi, orridi, del clan dei Casalesi, la persona che si professava l’anti-Stato, aveva sventolato bandiera bianca e iniziato a riconoscere lo Stato. Una scelta che, se mantenuta, avrebbe portato all’azzeramento di ciò che era rimasto di quell’organizzazione tracciata nello storico processo Spartacus, indebolendo, inoltre, i progetti malavitosi di chi ancora ne faceva parte. Ed invece il passo indietro del boss ora rischia di avere effetti negativi sullo scenario criminale, ancora in condizioni magmatiche, che si è iniziato a formare a seguito della scarcerazione di Emanuele Libero Schiavone, il figlio ora 33enne di Sandokan.
Procediamo con ordine. Emanuele Libero, dopo aver trascorso 12 anni in cella, era tornato a Casale lo scorso 15 aprile. L’indagine coordinata dai pm Vincenzo Ranieri e Simona Belluccio ha fatto emergere che il ragazzo si era subito attivato per ricostituire la cosca, tuffandosi anche nel business della droga (avrebbe allestito una rete di pusher in piazza Mercato, a Casal di Principe).
Prima del suo rientro a Casale, quando apprese del via alla collaborazione con la giustizia del padre, andò su tutte le furie, manifestando le sue preoccupazioni alla madre, Giuseppina Nappa, nel corso di una chiamata (intercettata). Il rampollo di casa Sandokan riteneva assurda la decisione del padre dopo aver trascorso 26 anni al 41 bis e soprattutto poiché metteva in pericolo sia lui che il fratello Ivanhoe, dato che non avrebbero accettato il programma di protezione e sarebbero tornati a Casale. “Senti – disse alla Nappa -, i figli tuoi se ne tornano a Casale e mo’ tu lo sai che se ti penti quelli hanno il mondo contro. Non sai le botte da dove vengono, perciò si devono difendere. […] Mamma questo è Ciccio Schiavone, non è Nicola”, alludendo al fatto che la collaborazione del fratello (primogenito) non aveva avuto contraccolpi, mentre quella del padre avrebbe generato un terremoto.
Emanuele Libero Schiavone il 20 marzo scorso, quando era ancora recluso, incontrò il padre. Il 33enne raggiunse il carcere de L’Aquila e qui il capoclan lo informò che effettivamente aveva iniziato la collaborazione con la giustizia, invitandolo ad andare via da Casale, in quanto in pericolo. Emanuele Libero respinse la proposta e rilanciò dicendo che anche Ivanhoe sarebbe rimasto nell’Agro aversano: “Devi far ridere i sanciprianesi, dobbiamo far ridere la gente, dobbiamo far ridere quelli…”. Sandokan cercò più volte di convincere il figlio a fare un’altra scelta, a mollare tutto, a cambiare vita. Ma inutilmente. “Ci porti sulla coscienza a me e a tuo fratello Ivanhoe”. Il colloquio si chiuse con il rifiuto da parte di Sandokan del bacio che voleva dargli il figlio. Un gesto che era stato visto come un segnale di convinzione circa il percorso intrapreso, almeno all’epoca, dal boss.
Emanuele Schiavone torna ad essere un uomo libero il 15 aprile. Il suo rituffarsi nel crimine lo porta a scontrarsi con chi, in sua assenza, legato ai Bidognetti, aveva assunto il controllo dei principali business illegali ancora presenti sul territorio (droga ed estorsioni). Sandokan jr., nonostante la decisione del padre di collaborare, prova ad imporsi, a pretendere quote su quanto guadagnato dal gruppo che inneggia a Cicciotto ‘e mezzanotte. Il 33enne sarebbe arrivato anche vicino a concretizzare un agguato per dare un segnale ai rivali, ma non ci riesce. E a questo suo tentativo, l’ala che avrebbe connessioni con i Bidognetti reagisce con due stese (una in piazza Mercato, a Casale, e un’altra in via Ovidio, a San Cipriano,) e con il raid di piombo contro il portone della casa di via Bologna dove abitano proprio Emanuele Libero e Ivanhoe. Insomma, i fratelli Schiavone (in attesa della scarcerazione di Carmine), senza lo scudo protettivo del padre capoclan, erano deboli e in pericolo, al punto da ripiegare a Napoli. E proprio nel capoluogo campano Emanuele Libero è stato arrestato il 15 giugno scorso con l’accusa di essere armato, insieme a Francesco Reccia, per reagire agli affronti subiti dal gruppo rivale. La guerriglia era stata disinnescata dai carabinieri proprio grazie a questi arresti. E la storia era terminata con gli Schiavone messi alle corde e l’ala vicina ai Bidognetti in vantaggio.
Lo stop alla collaborazione con la giustizia di Sandokan rimette in discussione questo scenario. Rischia di alimentare (almeno ideologicamente) l’ala schiavoniana. Potrebbe ridare sicurezza criminale a Emanuele Libero Schiavone e a chi gli sta vicino al punto da, appena avrebbero l’occasione, reagire alle azioni dei rivali. Insomma, la faida potrebbe riaccendersi e con un’intensità più alta rispetto a quella prevista.
Il primo segnale di sicurezza riconquistata dagli Schiavone è stato il ritorno a Casale di Ivanhoe (che era scappato a Napoli): con il padre non più in procinto di diventare un ‘pentito’ si sente probabilmente al sicuro. Le prossime settimane saranno importanti per capire cosa ha convinto la Dda di Napoli a non proseguire il percorso di collaborazione con Sandokan.
Se si è registrato un calo nell’apporto di informazioni da parte del capomafia, non è da escludere che a motivarlo sia stato proprio quanto stava accadendo a Casale mentre lui parlava con i magistrati. Il timore, forse, di non riuscire più a proteggere il figlio, che non aveva voluto mettersi alle spalle la vita mafiosa, è stato più forte del desiderio di poter iniziare una nuova vita dopo averla spesa tutta inneggiando al male e rimanendo rinchiuso in una cella. Adesso che ha ripreso a rispettare il patto di omertà, tornerà a rappresentare il simbolo del male: ed è improbabile che chi vive nel crimine si permetta di aggredire i suoi figli. E se lo farà c’è il rischio che una guerriglia tra bande che si contendono il mercato della droga si trasformi in una faida di altri tempi.
Setola e Belforte, gli altri pentimenti falliti
Sono serviti quattro mesi alla Procura di Napoli e alla Direzione nazionale antimafia per capire che con Francesco Schiavone Sandokan non sarebbe stato possibile attivare un solido percorso di collaborazione con la giustizia. Quelle che il boss avrebbe dato da marzo fino a pochi giorni fa sono state ritenute informazioni datate, riguardanti episodi già affrontati nelle aule di giustizia, o inverosimili e impossibili da riscontrare. Le premesse, invece, erano diverse. E non è da escludere, quindi, che questo rallentare, il rimodulare l’approccio ai magistrati da parte di Sandokan sia frutto di una sua strategia. Le prossime settimane saranno importanti per dare più certezza a questo quadro che si mostra, ora, complicato e fumoso.
Una storia, questa che ha come protagonista Francesco Schiavone, che ricorda il fallimento di un’altra collaborazione tentata con la giustizia da un personaggio pure eccellente (ma di caratura logicamente minore rispetto a Schiavone) del clan dei Casalesi: parliamo di Giuseppe Setola. Disse che aveva scelto di parlare perché si era sognato Papa Wojtyla che lo invitava a farlo. Dopo i primi interrogatori, Setola fece marcia indietro. Ci sono altri precedenti simili, ma verificatisi dopo i sei mesi in cui il mafioso pronto a cambiare vita offre i contenuti della sua collaborazione. Tra questi spicca quello di Salvatore Belforte a cui la Dda chiese e ottenne dal Ministero di revocargli il programma perché fornì informazioni non vere sul delitto di Angela Gentile. Nell’alveo delle collaborazioni con la giustizia problematiche va inserita quella di Augusto La Torre. L’ex leader mafioso si professa ancora un collaboratore, ma anche a lui è stato revocato il programma.
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