JAZZ 365 RITRATTI: James Clay – Il lirismo texano del sax tenore

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Dallas, Texas, 8 settembre 1935 – Dallas, 5 gennaio 1994

C’è una certa magia nei talenti che nascono in Texas; tra blues, gospel e jazz di strada, è cresciuto James Clay, sassofonista tenore e flautista capace di lasciare un segno discreto ma prezioso nella storia del jazz.

Nato a Dallas l’8 settembre 1935, Clay mosse i primi passi nella stessa scena musicale che vide emergere coetanei come Booker Ervin e Ornette Coleman. Non era raro, negli anni Cinquanta, imbattersi in questi giovani musicisti intenti a spingersi oltre le convenzioni del bebop, cercando una voce più personale. Clay, con il suo suono potente e intriso di blues, trovò presto la sua strada.

L’avventura californiana

Nel 1957 si trasferì a Los Angeles, città che stava diventando una fucina di nuove idee musicali. In pochi anni riuscì a incidere per la prestigiosa Riverside Records. Due album in particolare restano memorabili:

  • The Sound of the Wide Open Spaces! (1959), un’esplosione di energia registrata in tandem con Booker Ervin, sostenuto da un quartetto stellare con Wynton Kelly, Sam Jones e Art Taylor.
  • A Double Dose of Soul (1960), che mise in luce anche la sua abilità al flauto, in un’atmosfera più calda e soul-jazz.

Collaborò con artisti del calibro di Nat Adderley, Wes Montgomery e Victor Feldman, imponendosi come una voce da seguire nella nuova generazione del jazz.

Un percorso irregolare

Eppure, proprio quando la carriera sembrava decollare, Clay fece una scelta inattesa: tornò a Dallas nei primi anni Sessanta. Lontano dai riflettori delle grandi città, ridusse la sua attività discografica. Forse il peso del music business, forse il desiderio di restare legato alle radici: la sua traiettoria divenne meno visibile, e Clay rimase una figura “sommersa”, conosciuta e stimata soprattutto dagli addetti ai lavori.

Il ritorno negli anni Ottanta

Il silenzio durò a lungo. Poi, verso la fine degli anni Ottanta, Clay tornò a registrare, con lavori come I Let a Song Go Out of My Heart (1989) per la Antilles Records. Il suo sax non aveva perso forza: anzi, suonava più maturo, ricco di sfumature intime e malinconiche. Negli ultimi anni si esibì soprattutto in Texas, mantenendo un legame forte con la sua città natale.

Si spense a Dallas il 5 gennaio 1994, a soli 58 anni, lasciando dietro di sé l’immagine di un musicista appartato ma autentico.

Un’eredità da riscoprire

James Clay non fu mai una star del jazz, ma chi lo ha ascoltato ricorda il suo suono come qualcosa di unico: vigoroso come la tradizione dei Texas tenors, ma capace di aprirsi a lirismi moderni e a suggestioni sperimentali, frutto della vicinanza a Ornette Coleman.

La sua storia ci parla di scelte personali, di fedeltà alle radici, e di una musica che non sempre cerca la gloria, ma che sa raccontare la vita con profondità e sincerità.

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