CASAL DI PRINCIPE – Né carne né pesce. Non più mafiosi, dicono, ma neppure collaboratori di giustizia. Chi sono? Gli uomini di vertice del clan dei Casalesi che si ‘dissociano’. Una scelta, il più delle volte di comodo, che consente ai boss di non entrare apertamente in contrasto con il proprio passato e, in alcuni casi, di salvare i beni (accuratamente schermati) di cui stanno godendo i propri familiari liberi, beni frutto proprio delle loro azioni mafiose.
Sono diversi gli appartenenti ai Casalesi che, negli ultimi anni, hanno detto ai magistrati di essere fuoriusciti dalle cosche di appartenenza, corredando questo annuncio, a volte, con informazioni tese a rivelare la loro personale responsabilità in fatti di sangue (anche se spesso si tratta di vicende già accertate dalla giustizia). Perché lo fanno? Solitamente l’obiettivo è provare a liberarsi del 41 bis. Accettano la prospettiva di non poter lasciare il carcere, ma puntano a trascorrere la detenzione in un regime più leggero. Insomma, mettono in correlazione la dissociazione con il tentativo di disinnescare quella che è una delle misure di contrasto più valide contro ogni tipo di mafia.
Ed è proprio per tale ragione che la Cassazione si è mostrata molto rigorosa nel valutare queste dissociazioni annunciate. Circostanza evidenziata, recentemente, dal sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo e dal Tribunale di sorveglianza di Roma, nel valutare l’applicazione del 41 bis a Giovanni Letizia, componente di spicco del gruppo Bidognetti e noto alle cronache per la sua adesione all’ala stragista della cosca capeggiata da Giuseppe Setola.
Letizia, condannato all’ergastolo e ora recluso a Opera, rappresentato dai legali Paolo Di Furia e Paolo Muzzi, si è dissociato, ma per Di Matteo e i giudici di Roma questo non basta ad abbassare la sua intrinseca pericolosità, che potrebbe avere gravi effetti nel caso in cui venisse sottoposto a un regime detentivo più permissivo.
Nel provvedimento che gli conferma il carcere duro (che era stato impugnato dai suoi avvocati), i togati della Sorveglianza evidenziano come “la mera dissociazione” non rappresenti “un’effettiva cesura con il retroterra delinquenziale” e non comprometta la potenziale “ripresa di contatti” con la sua storica rete di rapporti.
Così come per Letizia, la dissociazione non è servita a liberarsi dal 41 bis neppure a Francesco Schiavone Cicciariello e a Massimo Alfiero. Anche questi casi, ha evidenziato il Tribunale nell’esaminare la posizione di Letizia, “dimostrano come la scelta dissociativa sia frequente nel clan dei Casalesi”, tanto che ha inserito nell’elenco di chi l’ha adottata anche altri due soggetti di spicco dell’organizzazione, come Michele Zagaria, Pasquale Apicella ‘o bellomm (quest’ultimo ora libero) e Bernardo Cirillo.
Tornando a Letizia, per il Tribunale con la sua dissociazione “sta cercando di conseguire l’importante risultato di riconoscere l’effettività delle accuse che gli vengono mosse – peraltro già ampiamente provate dalle plurime e convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia – quasi certamente a costo zero sotto tutti i profili”, ovvero “sotto il profilo della pena e sotto quello delle accuse ai complici”. Il detenuto bidognettiano, secondo i giudici, “non ha affatto ‘distrutto’ la propria immagine e il proprio ruolo all’interno del clan, né ha messo in difficoltà l’organizzazione”. Questo porta a ritenere che, se Letizia “volesse riprendere i contatti, potrebbe farlo senza alcuna difficoltà, non avendo realmente messo in discussione nulla”. Da qui la decisione di confermargli il 41 bis.
Insomma, la ‘dissociazione’ sembra essere la nuova strategia dei mafiosi per provare a divincolarsi dalla morsa del carcere duro.
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