Le mani del clan dei Casalesi sui beni confiscati. Il pentito racconta il sistema

Le ditte incaricate di riqualificarli indicate dalla cosca o costrette a cedere i guadagni

CASAL DI PRINCIPE – Sono persi. Andati. Con la confisca, il mafioso deve dire addio ai beni che ha accumulato illecitamente. Passano a quello Stato che l’organizzazione di cui ha fatto parte non riconosce. Ma lasciarli andare senza ricavarci nulla è un’opzione che per diversi anni il clan dei Casalesi ha provato a non accettare. Come? Ha tentato di inserirsi frequentemente negli interventi di riqualificazione delle strutture che vengono sottratte ai propri sodali.

A raccontarlo alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli è stato Nicola Schiavone, primogenito del capoclan Francesco Sandokan Schiavone e collaboratore di giustizia dal 2018. Quelle che vengono confiscate spesso sono strutture che necessitano di lavori per darne una nuova finalità sociale, a volte si trovano in condizioni decadenti e quindi bisogna rigenerarle. Insomma, bandire gare d’appalto per individuare una ditta che si occupi di questo è un passaggio necessario. E proprio in questo passaggio il clan dei Casalesi prova a farsi largo, tentando di insinuarsi con i propri tentacoli. Quando ci riesce, tragicamente, va a neutralizzare l’effetto positivo della confisca: una procedura tesa a depotenziare l’asse economico degli affiliati si trasforma nell’ennesima occasione per fare business. Schiavone al pubblico ministero Maurizio Giordano ha riferito che quando il clan veniva a conoscenza che i Comuni stavano bandendo la gara per riqualificare il bene, provvedeva a contattare l’affiliato a cui era stato sottratto quell’immobile. “Subire la confisca per noi – ha riferito il collaboratore di giustizia – è un nervo scoperto. […] Mal tolleravo che lo Stato si appropriasse di qualcosa che era nostro. Per questo decisi di intervenire e modificare un sistema che già mio padre e mio zio Cicciariello gestivano”. In cosa consisteva? “I lavori sugli immobili confiscati dovevano essere realizzati da imprese che poi versavano una quota. Non ci doveva guadagnare niente. Doveva fare zero a zero”. A questo sistema, Nicola Schiavone ha detto di aver apportato delle “modifiche sostanziali”. “Quando il lavoro veniva appaltato da un Comune da me controllato, convocavo il proprietario e lo ponevo dinanzi a una scelta. Poteva indicare una ditta a cui far fare il lavoro e io l’avrei proposta al Comune per fargli avere l’appalto, in questo modo il proprietario che aveva perso il bene ne rientrava in parte in possesso”.

L’altra opzione, ha proseguito Schiavone, consisteva nell’indicare lui una ditta e dare il guadagno al destinatario della confisca e l’ultima era “vendersi il lavoro”. “Non dava il nominativo dell’impresa, non la voleva da noi e diceva: io vorrei solo i soldi. E noi – ha proseguito il pentito – prendevamo l’impresa, ci facevamo dare il guadagno direttamente, soldi vivi in mano. Questo è il lavoro di 500mila euro, il ribasso era il 15, il 20 percento, facevamo i conti, prendevamo i soldi e li passavamo all’ex titolare dell’immobile”.

Tra i beni su cui i Casalesi avrebbero disteso i loro tentacoli, Schiavone ha indicato quelli confiscati a Egidio Coppola e quelli confiscati a Giuseppe Natale, situati nella zona di ‘Santa Maria Preziosa’. Queste dichiarazioni sono state recentemente depositate nel processo, in corso dinanzi al Tribunale di S. Maria Capua Vetere, a carico dei fratelli Nicola e Vincenzo Schiavone.

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