CASERTA – L’alta finanza e i grattacieli, le boutique di lusso e le sfilate, lo show biz e lo sport, le fabbriche e gli imprenditori: tutto in una sola città, Milano. E per gestire, evitando conflitti, alcuni dei business illeciti che attraversano il capoluogo lombardo e la sua provincia, cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra avrebbero stretto un patto criminale. Ed è questa intesa, fulcro della nuova ‘supermafia’, il tema della maxi inchiesta coordinata dalla Dda che, ieri mattina, ha fatto scattare le manette per 11 indagati (altri 142 sono a piede libero) e un sequestro di beni di oltre 225 milioni di euro. Un accordo che per gli inquirenti ha dato vita al cosiddetto “sistema mafioso lombardo”.
A rappresentare la Campania al tavolo milanese, secondo la Direzione distrettuale antimafia, c’è il gruppo Senese, compagine storicamente legata ai Moccia di Afragola e che opera ormai da diversi anni anche a Roma. La cosca sarebbe stata attiva in Lombardia attraverso Giancarlo Vestiti, 55enne, spalleggiato da Gioacchino Amico, 37enne originario di Canicattì, Antonio Sorrentino, 60enne di Napoli, ed Emanuele Gregorini detto ‘Dollarino’, 34enne nato a Marino.
Per avere un’idea del peso criminale che avrebbe avuto Vestiti nel ‘sistema lombardo’, dicono gli investigatori, basta ascoltare l’intercettazione datata 20 maggio 2020 in cui viene registrata la voce di Amico che lo definisce “il responsabile qua (a Milano, ndr) per Sicilia e Calabria”.
Indagando sui business illeciti settentrionali dei Senese, i carabinieri hanno evidenziato anche il loro legame con il clan dei Casalesi, in particolare con la cosca di Michele Zagaria, detto Capastorta. A rivelarlo è ancora una conversazione, intercettata, datata 16 maggio 2020. Amico è a bordo del suo Porsche in compagnia di Giancarlo Vestiti e del figlio, Edoardo. Il discorso tra i tre ad un certo punto vira sulla mafia dell’Agro aversano e il presunto referente dei Senese dice ad Amico: “Casal di Principe… noi siamo una cosa! Proprio una cosa. Ma non da adesso, da 30 anni. […] Io sono stato coimputato nel Duemila… io, Sandokan, Bidognetti”. Amico lo incalza e chiede dei rapporti con la cosca di Casapesenna: “La famiglia Zagaria con noi come è?”. “Ultimamente – gli risponde – mi sono incazzato e l’ho preso sotto… perché dei nipoti non sapevano che ero… gli ho detto: io parto da voi. […] Mi sono seduto fuori al bar, ho detto io, Francesco Zagaria, Edoardo Zagaria, Costantino, gli ho detto, parto da voi, non me la prendo coi ragazzi, me la prendo con voi. Che è successo! Li hanno chiusi in casa e gli hanno dato mazzate per due giorni ai ragazzi”. Ma, piccoli screzi a parte, Vestiti garantisce: “Siamo una cosa. Il pentito ‘o ninno era sempre a Milano con me. Ma io comunque lo schifo, no…”.
A riscontro parziale di quanto detto da Vestiti in auto, gli investigatori hanno verificato che effettivamente era stato coinvolto nel Duemila in una richiesta estorsiva relativa alle cosiddette ‘Stelle di Natale’ oggetto di un’indagine che aveva tirato in ballo pure il gruppo Bidognetti. Vestiti, interrogato a sommarie informazioni, confermò ai magistrati i suoi contatti con Pietro Iodice detto Pierino a Siberia, considerato dalla Dda un affiliato al clan Moccia.
Tornando alla conversazione avvenuta il 16 maggio 2020 nella Porsche di Amico, Vestiti parla anche di Pasquale Zagaria, alias ‘Bin Laden’: “È stato messo su Milano. È venuto qua Pasquale. Gliel’ha detto: stai attento che ci inc…. cattivo, cattivo, sbagli… chi (incomprensibile)… non stai parlando con me…. stai parlando con lui… quello è proprio lui, sta pure a Milano. A Milano te lo presento, mi ha fatto l’appuntamento e me lo ha mandato”.
Per gli investigatori questa conversazione, oltre a tracciare il ruolo di vertice che Vestiti avrebbe ricoperto nel ‘sistema mafioso lombardo’, indicherebbe anche che avrebbe rappresentato lui la porta di accesso per gli Zagaria, interessati a fare business, su Milano.
L’inchiesta sull’ipotizzato patto mafioso a tre, denominata Hydra, dal nome del mostro mitologico a più teste, è stata guidata dal pm Alessandra Cerreti sotto il coordinamento del procuratore aggiunto Alessandra Dolci e del procuratore Marcello Viola. A condurla sono stati carabinieri del Nucleo investigativo di Milano e Varese.
Documentati in un anno dai carabinieri 21 summit
I carabinieri del Nucleo investigativo di Milano e Varese hanno documentato diversi summit tra i rappresentanti di camorra, ‘ndrangheta e cosa nostra. Solo quelli che, secondo l’accusa, si sarebbero tenuti tra il 2020 e il 2021 sono 21. Dove? A Dairago, Cinisello Balsamo, Abbiategrasso e Busto Garofalo.
A sedersi al tavolo mafioso con i Senese, per accordarsi sulla gestione degli affari illegali a Milano e nella provincia di Varese, ha ricostruito la Dda, c’era la cosca trapanese che, fino a poco tempo fa, aveva al vertice Matteo Messina Denaro (morto il 25 settembre scorso). A rappresentarli, ha ricostruito l’Antimafia di Milano, Paolo Aurelio Errante Parrino, Bernardo Pace, detto ‘Dino’, Michele Pace, Rosario Abilone, Domenico Pace, Giovanni Abilone e Diego Cislaghi. Oltre a quella trapanese c’erano anche altre famiglie sicule. Quali? Quella Rinzivillo, che avrebbe fatto riferimento a Fabio e Dario Nicastro, oltre a Rosario Bonvissuto, quella Fidanzati, attraverso Stefano e Giuseppe Fidanzati, padre e zio di Giuseppe detto ‘Ninni’, e il gruppo Mazzei rappresentato da Gaetano Cantarella, scomparso il 3 febbraio 2020 e William Cerbo. La ‘ndrangheta, invece, avrebbe schierato la locale di Legnano-Lonate Pozzolo, collegata a quella di Cirò, dominata dalla cosca Farao-Marincola. Chi la rappresentava? Secondo gli inquirenti sarebbe toccato a Vincenzo Rispoli, Massimo Rosi, Giacomo Crisello, Francesco Bellusci, Raffaele Barletta, Alfonso Rispoli, Pasquale Rienzi, Armando Le Rose, Pasquale Filomeno Toscano e Luca Frustino. Per la Calabria, stando alla tesi dell’accusa, nel sistema lombardo c’erano anche la cosca Iamonte (che fa parte della locale di Desio), con Filippo e Santo Crea, Maria Domenica Postù, Detetrio Tripodi, Lorenzo Suraci, Saverio Pontaudi e Claudio Scotti come principali riferimenti, e i Romeo ‘Staccu’, per il tramite di Romeo Antonio.
Estorsioni, stupefacenti, armi e false fatture: il business del clan
Estorsioni, droga, armi e complesse manovre finanziarie, con la cessione di falsi crediti di imposta e fatture tarocche (usando società intestate a teste di legno e con sede in Gran Bretagna e Usa): sono le principali attività criminali che avrebbe gestito il ‘sistema mafioso lombardo’. Questo meccanismo, frutto dell’ipotetica intesa tra camorra, cosa nostra e ‘ndrangheta, sostiene la Dda di Milano, sarebbe arrivato a macchiarsi anche della scomparsa per lupara bianca di Gaetano Cantarella.
Ad occupare il vertice lombardo della camorra campana, ha ricostruito l’Antimafia, ci sarebbe Vincenzo Senese (figlio del boss Michele ‘o pazz), espressione dell’omonima famiglia operativa a Roma e storicamente legata ai Moccia di Afragola. Sul gradino più in basso, invece, siederebbe Giancarlo Vestiti, che avrebbe impartito al gruppo direttive anche mentre era in carcere attraverso alcuni suoi familiari. Ruolo di rilievo pure per Gioacchino Amico che avrebbe fatto da coordinamento tra i Senese e le altre famiglie del sistema. Ad operare per il gruppo campano, stando alla tesi della Dda, pure Francesco Berducci, 47enne originario di Roma, Federica Buccafusca, 36enne di Palermo, Giuseppe Castiglia, detto Pippo, 58enne nato a Francoforte, Giovanni Cirillo, 46enne napoletano, Antonio Sorrentino, 60enne di Napoli, Emanuele Gregorini, detto Dollarino, di Marino, Pietro Mazzotta, 65enne di Reggio Calabria, Raimondo Orlando, 50enne di Canicattì, Daniela Sangalli, 25enne di Treviglio, Eduardo Maria Vestiti, 25enne, Marika Vestiti, 23enne, entrambi di Napoli, Sergio Sanseverino, 65enne di Palermo, Giuseppe Fiore, 35enne di Palermo, Domenico Brancaccio, 42enne di Aversa, Alessandro Bramonti, 23enne di Roma, Vincenza Albanese, 57enne di Cittanova, e Giuseppe Antonio Zinghinì, 52enne di Legnano.
L’inchiesta ieri ha fatto scattare 11 arresti, ma la Dda aveva chiesto in totale misure cautelari per 154 persone, di cui il carcere per 87, i domiciliari per 33 e per 34, invece, aveva proposto l’obbligo di firma. Se i numeri dei destinatari dell’ordinanza cautelare sono stati così bassi è perché il gip Tommaso Perna del Tribunale di Milano ha bocciato l’impianto accusatorio non riconoscendo l’esistenza di una confederazione di mafie. Dall’analisi degli atti, ha ricostruito il giudice, non è emersa la costituzione di “un’organizzazione stabile” con “un programma criminale comune, protratto nel tempo” e una ripartizione “di compiti tra gli associati” in grado “di infiltrarsi nel territorio, di sfruttare la condizione di omertà diffusa, di limitarsi, se del caso, a lanciare avvertimenti anche simbolici o indiretti in ambiti politici (l’attività investigativa ha raccolto intercettazioni in cui si parla di esponenti non indagati di Fdi)”. Altro elemento che ha spinto il gip a non considerare verificato il patto è l’assenza di atti intimidatori: “Persino gli episodi estorsivi, così come la disponibilità di armi (…) sono stati, oltre che limitati nel numero e qualitativamente non ‘gravi’, se contestualizzati in un’associazione di stampo mafioso, per lo più indimostrati”.
Ai 153 indagati (da considerare innocenti fino a una eventuale sentenza di condanna irrevocabile) vengono contestati a vario titolo i reati di associazione mafiosa, estorsioni, armi, droga, false fatturazioni e trasferimento fraudolento di beni. Tra gli inquisiti originari della Campania anche Orsolo Polise, 31enne, Andrea Michele Russo, 30enne, entrambi di Torre Annunziata, e Gennaro Di Pierino, detto Rino ‘o chiattone. A finire cautelarmente in cella sono stati soltanto Gioacchino Amico, Francesco Bellusci, Rosario Bonissuto, Giacomo Cristello, Giuseppe Fiore, Pietro Mazzotta, Dario Nicastro, Francesco Nicastro, Massimo Rosi, Sergio Sanseverino e Giuseppe Sorce.
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