NAPOLI (Raffaele Carotenuto)– Il 2025 risulterà dirimente per la storia del nostro paese. Sancirà se debba svolgersi il referendum per abrogare l’intera legge sull’autonomia differenziata o, piuttosto, mettere questo Parlamento nella condizione di evitare il voto referendario apportando i correttivi imposti dal recente giudizio della Corte Suprema. Questo Governo, ispiratore della legge di divisione del paese, farà di tutto per “pastrocchiare” a colpi di maggioranza pur di non sottoporsi al giudizio degli italiani. Sente il peso di una probabile sconfitta, non è più sicuro di portare a casa una legge che cambierà il volto delle istituzioni così come storicamente conosciute. Siamo ad un tornante della storia del paese, sia nei rapporti interni che verso la UE, uno Stato sostanzialmente non omogeneo, proiettato non ad allinearsi nelle sue componenti territoriali, ma a disarticolare ancor più l’esistente, è destinato a fallire. Non ci resta che “battere” casa per casa e convincere i cittadini ad esprimersi, usciamo “fuori” dai social ed incontriamo chi, in carne ed ossa, deve difendere l’esistenza del Mezzogiorno. Ne parliamo con Carlo Iannello, professore di Istituzioni di Diritto pubblico presso l’Università della Campania Luigi Vanvitelli, dove insegna Diritto dell’ambiente, Diritto pubblico dell’economia e Biodiritto.
La Corte di Cassazione ha dato il via libera al referendum sulla legge Calderoli. A gennaio si pronuncia la Corte Costituzionale. Cosa si attende?
Che anche la Consulta dia il via libera. La legge, sebbene modificata dalla sentenza n. 192 del 2024, è vigente. Gli argomenti in favore dell’inammissibilità sono molto deboli. La parte più avvertita dei colleghi (penso a Massimo Villone, Roberta Calvano, Giovanna De Minico) ritiene il referendum ammissibile. Al di là del piano strettamente tecnico, lo strumento referendario, utilizzato sul tema dell’autonomia differenziata, riprende il suo senso originario: chiamare il corpo elettorale a esprimersi su una grande questione di carattere etico o economico-sociale. Negli ultimi tempi abbiamo assistito ad un uso improprio del referendum, strumentalizzato per ermetiche questioni di ingegneria costituzionale, specie in materia elettorale. Questa è un’occasione per rigenerare lo strumento, come fu al tempo dell’aborto e del divorzio o come è stato per l’acqua pubblica.
Professor Iannello, la Corte Costituzionale ha “bocciato” passaggi fondamentali della legge Calderoli chiarendo, inequivocabilmente, che tale impianto legislativo “non debba corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico”. Secondo Lei, questo Governo confonde le istituzioni del paese con casa propria?
La Corte costituzionale ha avuto un compito improbo dopo il Titolo V del 2001. Alle Regioni sono stati attribuiti poteri smisurati, al di là del buon senso. L’art. 116.3 permetteva addirittura di attribuirgliene ulteriori, concernenti 23 materie, emarginando il Parlamento nazionale. Il merito della sentenza n. 192 è di aver «riscritto» lo stesso articolo 116.3, alla luce della prima parte della Costituzione. Così la Corte ha chiarito che il 116.3 è utilizzabile non per materie, ma solo per «specifiche funzioni», legate a effettive esigenze locali, ridando al Parlamento il proprio ruolo. La sentenza riguarda la legge Calderoli, ma in realtà sono stati travolti tutti i tentativi di attuazione, sostenuti dal 2018 da 5 governi, di centro sinistra come di centro-destra. Per non parlare di ciò che è stato scritto dagli acritici apologeti del regionalismo, aumentando la confusione. Quanto a confondere le istituzioni con casa propria, sfonda una porta aperta. Purtroppo, anche questa, è una degenerazione bipartisan. Cosa dovremmo dire di quelle classi dirigenti che hanno privatizzato immensi patrimoni degli italiani come se si fosse trattato di una loro personale proprietà?
La storia del nostro paese dice che l’avanzamento dei diritti sociali e civili, proprio quelli che tratterebbe l’autonomia differenziata, è avvenuto quando Nord e Sud hanno camminato insieme: aborto, divorzio, unità sindacale, diritti dei lavoratori, gabbie salariali. È il caso di offrire una piattaforma unica, dal settentrione al Mezzogiorno, per respingere la divisione del paese?
I diritti civili devono camminare assieme a quelli sociali, altrimenti diventano affermazioni retoriche. Al di fuori di una rete solidaristica che garantisca l’autonomia individuale, cioè una scelta davvero libera, i diritti civili perdono di senso. Dall’inizio degli anni Novanta il drastico taglio dei diritti sociali è stato nascosto con la retorica dell’espansione di quelli civili. La compromissione dei diritti sociali elimina il terreno su cui si può effettivamente esercitare la libertà. I diritti sociali servono al Sud come al Nord. Il vero antagonismo di interessi è fra le imprese, che vogliono occupare interamente il welfare abbandonato dallo Stato, e i cittadini tutti, che hanno pagato e pagheranno ancora questa deriva. La divisione del Paese si è amplificata proprio quando è venuto meno il welfare assicurato dallo Stato. Così negli anni Ottanta del secolo scorso, il federalismo si è trasformato nel suo contrario, in un progetto secessionista delle regioni del Nord. Questa idea di divisione la si può contrastare solo sul terreno dei diritti sociali.
Secondo Lei, il meridione cosa dovrà mettere di “suo”, cioè, quale potrebbe essere una proposta di qualità, pervasiva, convincente, che sappia parlare anche a settori del Nord che non sono d’accordo con il disegno leghista di spaccare il paese? Si può cominciare da qui, anche in assenza di un quadro sociale che non è più in grado di offrire punti di riferimento?
Si potrebbe partire dalla sanità pubblica, le cui regole di riparto favoriscono il Nord. È facile far capire ai cittadini del Nord che dalle politiche di privatizzazione e di riduzione dell’eguaglianza al minimo loro non riceveranno alcun vantaggio, come già accaduto sin dall’inizio degli anni Novanta. Da allora, infatti, l’assistenza sanitaria pubblica è peggiorata anche per loro. Discorso diverso per le imprese private, che hanno sostituito la sanità pubblica, tanto al Sud come al Nord, con danno per tutti i cittadini.
I Livelli essenziali di assistenza rappresentano il punto di contraddizione più evidente della legge sull’autonomia. Tutto il dibattito si attarda a discettare su quali dovrebbero essere e non già su come li si finanzia. Se la legge Calderoli non prevede nuovi oneri finanziari, come si pareggiano questi LEA? Bisogna distribuire diversamente quelli che abbiamo. Secondo Lei, si tolgono soldi al Nord per spostarli sulla sanità del Sud? Non Le sembra un’operazione truffaldina?
Guardi, i soldi delle tasse (del Sud o del Nord) sottratti al welfare non sono restituiti ad altri cittadini, ma vanno a favore del mercato. Questo è l’obiettivo delle politiche di privatizzazione, in cui siamo immersi da oltre 30 anni. Tutti i cittadini ci perdono, indipendentemente dalla residenza. Ci guadagnano solo i grandi gruppi privati della sanità, spesso nemmeno italiani. Il problema giuridico è rappresentato proprio dai livelli «essenziali» delle prestazioni. «Essenziali» vuol dire «minimi». Quest’idea, introdotta nel 2001 nel Titolo V, è figlia della degradazione dei diritti sociali in diritti economici condizionati dalle compatibilità di bilancio. Garantire il livello essenziale, nell’ambito dei vincoli di bilancio, significa negare il diritto costituzionale alla salute e creare una diseguaglianza, invece di rimuoverla, come imporrebbe l’art. 3, II comma Cost. Oggi siamo costretti ad usare il cavallo di troia dei livelli essenziali, nato contro l’eguaglianza, addirittura come se fosse il suo baluardo. Siamo messi davvero male.
Bisogna uscire dalla narrazione che il Nord è cattivo e il Sud è divorato da questo mostro. Il Mezzogiorno sconta la mancanza storica di una classe dirigente all’altezza del compito. Vittimismo e deresponsabilizzazione, sindrome dell’accerchiamento e fattori di dipendenza strutturali. Lei pensa che qui da noi molti si sono adagiati, tanti pensano che questo sia un destino ineluttabile e troppi aspettano di sfruttare il vento del Nord?
Il problema della mancanza di una classe dirigente è endemico ed è la vera questione. Quanto al Sud, ricordo le pagine di Benedetto Croce sulla borghesia meridionale. Oggi però il problema è nazionale. Prima le classi dirigenti meridionali erano subalterne a quelle nazionali, che effettivamente svolgevano un ruolo di direzione, strumentalizzando i cittadini più attivi meridionali, come osservava Gramsci. Ora le classi dirigenti sono del tutto subalterne a vincoli esterni. Fra di esse, il ceto politico rappresenta una paradossale avanguardia: è il più subalterno di tutti a interessi non nazionali. Quelle meridionali, poi, non esistono proprio.
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