L’INTERVISTA. Nino D’Angelo: “Amavo il caschetto ma volevo andare oltre. Mio figlio ha sofferto l’esser oscurato”

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Nino D'Angelo

NAPOLI – Dopo il successo al Festival di Venezia con la presentazione del documentario “NINO. 18 GIORNI”, Nino D’Angelo conclude il suo tour estivo “I MIEI MERAVIGLIOSI ANNI ’80” con due imperdibili concerti a Napoli oggi e domani, giovedì 11 e venerdì 12 settembre, nella suggestiva e simbolica cornice di Piazza del Plebiscito. L’artista celebrerà insieme al pubblico le sue canzoni, ripercorrendo oltre quarant’anni di carriera e i grandi successi degli anni ’80, reinterpretati con l’energia e la sensibilità di oggi. Partito a giugno da Palermo, il tour ha attraversato tutta Italia, da Firenze a Roma, passando per Genova, Torino, Agrigento, Pescara e molte altre città, raccogliendo consensi entusiasti ovunque. Nino, il “ragazzo della curva B”, ha portato sul palco brani indimenticabili come A’ Discoteca, Popcorn e Patatine, Maledetto Treno e Napoli, l’indimenticabile storico inno della squadra azzurra.

E ora, dopo aver calcato il red carpet veneziano accanto a suo figlio Toni D’Angelo, regista del documentario che uscirà nelle sale il 20 novembre, Nino porta la sua storia e la sua musica direttamente nel cuore della città che lo ha visto nascere. A Venezia c’è stata la presentazione del documentario “Nino. 18 giorni”. Guardarsi attraverso lo sguardo di suo figlio, Toni, significa anche accettare la possibilità
che lui racconti un Nino diverso da quello che lei avrebbe voluto.

Le somiglia il Nino del film?

“Io penso che mio figlio abbia fatto un grande lavoro. Si è preso una grande responsabilità, è stato coraggioso, perché fare un film su un padre che si chiama Nino D’Angelo, per la storia che ha, non è facile. Penso che lui abbia trovato la chiave giusta, non quella che tu ti aspetti. Infatti, quando vedi il suo documentario, è tutta un’altra cosa rispetto ai documentari dei cantanti, degli artisti: è proprio un’altra cosa. E questo è stato il suo successo: ha saputo raccontare suo padre attraverso il suo cuore, attraverso il suo sguardo, raccontando anche di sé, della sua visione, di quello che era lui. Ha raccontato il padre per raccontare anche se stesso. Il figlio di questo padre”.

Lei ha detto: “Mio figlio ha sofferto per essere mio figlio”. E lei ha sofferto per il fatto di essere il padre di Tony?

“No, no, al contrario, un padre è sempre felice per un figlio. Mio figlio non è che ha sofferto… ha sofferto l’essere oscurato sempre, in qualunque cosa. Da piccolino è stato sempre “il figlio di Nino D’Angelo”. Dove andava, sentiva oscurata la sua persona”.

E lei non soffriva per il fatto di vederlo oscurato?

“Ma non me ne sono mai accorto. Me ne sono accorto con questo docu-film. Non ci avevo mai pensato. Mi ha fatto riflettere lui con questo docu-film, che è bellissimo. Ma adesso io sono il padre, quindi devo dire per forza così. Per me è bellissimo il film. Quando lei lo vedrà, se lo vedrà, si renderà conto che mio figlio è stato molto bravo. Il caschetto è stato insieme a un’armatura e un po’ anche una condanna”.

C’è qualche altra maschera che pensa di indossare senza accorgersene?

“Il caschetto è diventato una maschera. Io, per la gente, sono quello là. Infatti anche Loredana dice: “Fa quello là”, perché quello là ha fatto tutto quello che ho fatto io dopo. Io l’ho fatto crescere, quello là, ma lui è l’inventore del genere della nuova canzone napoletana. Lui è stato quello che ha costruito tutto, tutto, tutto, e io poi ho cercato di portarlo avanti e portarlo in un’altra dimensione, perché sono cresciuto pure io, facendomi più grande. Avevo l’esigenza di scrivere cose diverse, di cantare cose diverse. Non ho pensato solo ai soldi, come fanno tanti miei colleghi, perché funziona una cosa e allora fanno sempre quella. Volevo cambiare, mi stavano stretti quei panni là, volevo crescere, avevo voglia di parlare anche di altri problemi, non solo essere il cantante dell’amore. Io volevo essere anche un padre che fa aprire gli occhi ai figli, e facendo aprire gli occhi ai figli li fa aprire a tutti i ragazzi, ai giovani. Io amo molto la gioventù napoletana, per cui tanti riferimenti sono messaggi per arrivare al cuore di quei ragazzi”.

Quindi oggi sente di essere finalmente libero da quell’immagine?

“Io non mi voglio liberare di quell’immagine, la porto sempre dentro di me. Ma è il dovere, è la vita che ti cambia, perché la vita ti cambia la faccia. È normale che oggi, quando canto ‘Nu jeans e na magliett’, è un momento di nostalgia, non è un momento di verità oggi. Lo era di verità quando avevo vent’anni e cantavo ‘Nu jeans e na magliett’. Io adesso mi sento un cantautore, posso cantare tutte le cose, non solo l’amore. Ma rimane comunque un mito il Nino D’Angelo col caschetto, non è che sia andato via, c’è tutto dentro di me. Anzi, quando canto le canzoni degli anni ’80 mi emoziono sempre. Però ovviamente oggi i miei messaggi, quello che voglio scrivere, è quello che pensa uno della mia età”.

Lei ha raccontato, però, di essere caduto anche in depressione…

“La depressione può venire per tanti motivi. Nella mia c’era anche quella voglia di cambiare che non riuscivo a realizzare, perché qualunque cosa facevo c’era sempre quel caschetto di mezzo. La gente parlava con me ma voleva il caschetto. E io invece volevo andare oltre, non perché odiavo il caschetto: amavo il caschetto. Però volevo andare oltre, volevo fare le mie canzoni. Volevo crescere, volevo andare oltre. Tutti hanno fatto questo. Per me è stato più difficile perché la mia immagine era legata a quello”.

Oggi è di nuovo sulla bocca di tutti con festival, documentario, tour. C’è più soddisfazione nell’essere riconosciuto adesso con tutta la sua complessità o negli anni ’80, quando il successo era travolgente ma magari anche un po’ più superficiale?

“Sono due momenti diversi. Oggi veramente ho vinto, sono riuscito a passare quel muro invisibile che ho avuto sempre davanti, quel muro che divide sempre le persone. Io, quando ero ragazzo, venivo escluso, non mi difendeva nessuno, proprio perché non appartenevo al potere. Ero uno che si faceva i dischi, si autoproduceva. Quello sì che è stato faticoso. Ho trovato la strada più facile dopo, perché avevo già costruito, avevo già potuto muovermi, ero diventato benestante: era un’altra vita. In questa vita qua ho dovuto faticare di più del caschetto, che poi alla fine… ho indovinato tre o quattro pezzi, sono andati fortissimo, è diventata iconica quella faccia. Poi è stato più difficile, sono stato molto costante, ho pensato solo a scrivere belle canzoni, a aprirmi anche a un pubblico che guardasse oltre l’aspetto, che vedesse pure cosa c’è sotto quel caschetto. Prima non riuscivo a far vedere alla gente la testa che avevo sotto al caschetto. Invece man mano, con il tempo, quando fai tante canzoni belle che arrivano a un pubblico nuovo, succede come a Venezia che trovi un grande rispetto. La gente a Venezia ha avuto un grande rispetto nei miei confronti, mi ha accolto come un grande cantante, un grande autore, mi ha fatto sentire importante. Questo è bellissimo, ed è una felicità per me. Ma ho fatto una doppietta, due gol nella stessa partita, perché ho avuto due felicità. La mia, di essere riuscito finalmente a cancellare questo muro che mi si era messo sempre davanti, e poi la soddisfazione che questo muro sia stato superato da mio figlio con questo documentario bellissimo, che ha saputo raccontare non solo il padre ma anche l’artista che sono”.

In un’epoca dove tutto è velocissimo e consumato subito, come si costruisce ancora un rapporto duraturo con il pubblico come ha fatto lei?

“Con la professionalità, con l’umiltà che è fondamentale: stare con i piedi per terra, con il rispetto del pubblico. La gente mi vuole bene, ma oltre al cantante mi considera una bella persona. Io questo lo noto, lo noto su tutte le TV, per i sentimenti che uno ha, per i valori. Io ho cercato sempre di mettere davanti i valori importanti. La gente questo l’ha capito. Potevo adagiarmi nelle canzoni degli anni ’80, non l’ho fatto. Però ho scritto canzoni come Guagliò, canzoni come Senza giacca e cravatta, dove il sentimento è protagonista. La gente forse ha trovato in me qualcosa che non si trova più”.

Un’ultima domanda: cosa vorrebbe che un ragazzo di 18 anni, presente per la prima volta al suo concerto di Piazza del Plebiscito, capisse di lei e della sua storia?

“Vorrei insegnare ai ragazzi, se mi posso permettere, come maestro di strada e maestro di vita per l’età che ho, che la famiglia è forse la cosa più importante che noi abbiamo, perché dalla famiglia parte tutto, parte ogni cosa. Invece la famiglia è un po’ rotta in questo momento e mi piacerebbe far capire ai giovani che non è una cosa da poco, è una cosa importante, è una cosa vitale. La famiglia può aiutare. Bisogna parlare di più. Mi piacerebbe che i giovani parlassero di più a casa, parlassero più di valori. Oggi si può vedere tutto, non è come una volta, però secondo me le cose materiali stanno vincendo troppo sui sentimenti. Bisogna recuperare tanti valori, in primis quello della famiglia”.

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