MARCIANISE – Non solo compagna (ora ex) di un boss, ma tassello consapevole di un’organizzazione mafiosa. Così la Cassazione descrive Albina Natale, 43 anni, rigettando in via definitiva – con la sola eccezione della libertà vigilata – il ricorso da lei presentato contro la condanna a due anni e otto mesi per associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni.
La donna, già moglie di Bruno Buttone, ex affiliato di spicco del clan Belforte, è stata ritenuta dalla giustizia penale “pienamente coinvolta” nelle dinamiche della consorteria.
La vicenda giudiziaria affonda le radici in una lunga inchiesta che ha messo nel mirino il clan Belforte.
Albina Natale era già stata condannata in primo grado nel 2016, con rito abbreviato, a tre anni di reclusione. La Corte d’appello di Napoli, nel luglio 2024, aveva rideterminato la pena in due anni e otto mesi, escludendo l’aggravante mafiosa sull’intestazione fittizia, ormai prescritta, ma confermando l’impianto accusatorio sull’associazione.
Nel ricorso in Cassazione, il difensore della donna aveva provato a demolire l’idea di un suo ruolo attivo, sostenendo che la Natale si fosse limitata a gestire questioni economiche del marito detenuto, fungendo da sorta di portavoce passiva per le comunicazioni con altri familiari. Ma per i giudici questo quadro è fuorviante e sottostima “l’apporto concreto” fornito dalla donna al sodalizio mafioso.
Nella sentenza depositata dalla prima sezione senale (relatore Paolo Valiante, presidente Giuseppe De Marzo), i giudici di legittimità rigettano i quattro motivi principali di ricorso. La Corte osserva che Natale “non si è limitata a una mera passività coniugale”, ma ha operato come tramite nelle comunicazioni tra il marito e la cugina, Maria Buttone, contribuendo alla gestione economica delle attività del clan anche durante la detenzione del coniuge.
Fondamentale per i giudici è la consapevolezza del ruolo assunto: la donna riceveva uno “stipendio” dal clan e reinvestiva somme – provento delle attività illecite – nell’acquisto di beni, come un immobile poi intestato a terzi. Un comportamento che, pur essendo stato minimizzato nelle dichiarazioni rese dall’imputata, ha trovato riscontro nelle intercettazioni e nei riscontri documentali.
La difesa aveva anche invocato la concessione dell’attenuante della collaborazione “nella massima estensione”, sostenendo che le dichiarazioni della Natale fossero genuine e decisive per ricostruire la struttura economica del clan. Ma per la Cassazione, la Corte d’appello ha correttamente ritenuto che tali dichiarazioni – definite “confessorie ma sminuenti” – erano state già considerate nei precedenti gradi di giudizio. Il contributo, insomma, non fu né nuovo né determinante.
Rigettata anche la richiesta di prevalenza delle attenuanti generiche: il comportamento post-delictum e l’asserita resipiscenza non sono apparsi tali da ribaltare l’equilibrio del giudizio. “L’impegno collaborativo – si legge nella sentenza – è stato già valorizzato nel computo della pena, prossima al minimo edittale”.
Unico punto accolto dai giudici è la revoca della misura di sicurezza della libertà vigilata, inizialmente disposta in ragione dei precedenti penali. La Cassazione ha riconosciuto che il giudizio sulla pericolosità sociale della donna non può basarsi solo su dati pregressi. La Corte rileva infatti che “non è stata considerata adeguatamente la condotta successiva alla commissione dei fatti, né il percorso di distacco dall’ambiente criminale”. A rivalutare il sarà, quindi, una nuova sezione deell’Appello.
La vicenda di Albina Natale si inserisce nella costante attenzione della Dda sul clan Belforte, da decenni protagonista del panorama camorristico campano. E conferma un trend emerso con forza negli ultimi anni nei processi di mafia: il ruolo attivo – talvolta di regia – assunto da figure femminili all’interno dei clan, soprattutto quando i capi maschi sono detenuti.
La motivazioni della sentenza della Cassazione sono state depositate la scorsa settimana.
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