MILANO – Luciano Ligabue celebra 30 anni di carriera e traccia un bilancio in una lunga intervista a Repubblica. “È ovvio – dice – che io sia soddisfatto di come sono andate le cose, mi sveglio contento di me. Ma il diavoletto è sempre al lavoro, mi spinge a cercare qualcos’altro, mi fa stare sul chi vive, come se dovessi fare ancora chissà cosa e non mi lascia mai in pace”.
“Il problema più serio – racconta – l’ho avuto all’indomani di un periodo in cui le cose andavano fin troppo bene, alla fine degli anni Novanta, il momento in cui tra Buon compleanno Elvis, Su e giù per il borgo e Radiofreccia mi era arrivata addosso anche la parte meno piacevole del successo, che mi obbligava a un impegno nuovo. Dovevo fare i conti con la nuova curiosità della gente nei miei confronti, convivere con un nuovo isolamento che quella curiosità comportava. Mi chiesi davvero se ne valesse la pena, se non fosse stato meglio smettere in quel momento, all’apice, in bellezza, lasciando solo un buon ricordo. Ma decisi che non potevo smettere di fare concerti, e mi rimisi al lavoro”.
I concerti restano dunque il cuore del lavoro e della passione del rocker di Correggio. “In tutti questi anni il povero Maioli (il suo manager, ndr ) si è dovuto inventare ogni modo possibile per farmi suonare. Sono sempre ingordo, suono volentieri ovunque, dal piccolo club fino a Campovolo e tutto quello che c’è nel mezzo. In questi trent’anni ho acquisito una forma di dipendenza, sono tossico, non lo nego. Quello che provo sul palco non lo trovo nel mio quotidiano ed è difficile farne a meno. Ho provato in tutti i modi a spiegare cosa provo, ma è difficile, meglio risalire su un palco, come ho già fatto per la bellezza di 850 volte in questa vita”.
(LaPresse)