Vibo Valentia, 9 apr. (LaPresse) – La Polizia di Stato e in particolare gli uomini della squadra mobile di Vibo Valentia e del commissariato di Serra San Bruno hanno eseguito un decreto di fermo, emesso dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro, nei confronti di 7 indagati ritenuti responsabili, a vario titolo, di tentato omicidio, detenzione e porto abusivo di armi – provento di furto o comunque alterate per aumentarne la potenzialità offensiva (cd a canne mozze) – oltre che di ricettazione: reati tutti aggravati dal metodo mafioso.
Le indagini, dirette dai sostituti procuratori della Dda, Annamaria Frustaci e Filomena Aliberti, coordinate dal procuratore aggiunto Giovanni Bombardieri e dal procuratore capo Nicola Gratteri, sono scaturite dal tentato omicidio dei fratelli Giovanni Alessandro e Manuel Nesci (quest’ultimo minore affetto da sindrome di Down), ed hanno fatto luce su uno spaccato della attuali dinamiche criminali dell’entroterra vibonese, piagato oramai da decenni dalla contrapposizione (nota alla cronaca come ‘faida dei boschi’ e già costata diverse decine di morti) che vede impegnate nella contesa per il controllo del territorio le famiglie Loielo ed Emanuele-Maiolo.
Le investigazioni hanno svelato i complessi equilibri che portarono alla consumazione dell’agguato mafioso nel quale rimasero gravemente feriti – il 28 luglio 2017 – i due fratelli Nesci, dipingendo un quadro a tinte fosche fatto di trame ordite – senza soluzione di continuità – dagli Inzillo, contigui agli Emanuele, per portare alla eliminazione della controparte, espressione invece della famiglia Loielo.
Sullo sfondo del progetto criminale che ha accomunato i propositi degli indagati ha trovato, poi, sfogo l’operato delle ‘donne’ della famiglia Inzillo che si è contraddistinto per l’inusitata violenza delle affermazioni, per la determinazione evidenziata nei propositi omicidiari, per il costante incentivo all’azione assicurato in favore dei ‘maschi buoni’ della famiglia (ossia gli uomini capaci di commettere le azioni delittuose) nonché per l’apporto che in prima persona le stesse hanno garantito nella custodia delle armi, non esitando a coinvolgere anche l’anziana madre (indotta dalle figlie ad occultare una pistola nella propria biancheria intima, al fine di fugare eventuali controlli ad opera delle forze dell’ordine).
Maggiori dettagli verranno forniti nel corso della conferenza stampa che si terrà alle 11 presso la Questura di Vibo Valentia alla presenza del Procuratore Capo Nicola Gratteri.
Quattro noti imprenditori di Reggio Calabria ritenuti affiliati alle cosche di ‘ndrangheta del capoluogo calabrese sono stati fermati in un’operazione del Nucleo investigativo dei carabinieri, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia reggina: sono accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa, fittizia intestazione di beni e autoriciclaggio. Gli imprenditori avrebbero contato sull’appoggio delle più pericolose cosche cittadine per accumulare enormi profitti illeciti, riciclati poi in fiorenti attività commerciali. L’indagine ha fatto luce su un reticolato di cointeressenze criminali coltivate da imprenditori edili e immobiliari. Sequestrate anche numerose aziende, centinaia di appartamenti e decine di terreni edificabili nel capoluogo per un valore complessivo di oltre 50 milioni di euro. All’operazione hanno partecipato oltre 100 carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria.
Gli imprenditori fermati dai carabinieri sono Carmelo Ficara, Andrea Francesco Giordano, Giuseppe Surace e Michele Surace. Ficara è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e concorso in estorsione aggravata dal metodo mafioso; Giordano e Michele Surace di associazione di tipo mafioso, esercizio abusivo dell’attività finanziaria e trasferimento fraudolento di valori aggravato poiché commesso al fine di agevolare l’attività dell’associazione mafiosa (quest’ultimo reato contestato anche a Giuseppe Surace). Il provvedimento è l’esito di un’articolata attività investigativa, avviata nel febbraio 2017 dai militari del Nucleo Investigativo di Reggio Calabria, sotto la direzione della locale Dda, per fare luce su un sistema di cointeressenze criminali, coltivate dagli imprenditori che, sfruttando l’appoggio delle più temibili cosche cittadine (in particolare la cosca ‘Tegano’), sono riusciti ad accumulare, in modo del tutto illecito, enormi profitti prontamente riciclati in fiorenti e diversificate attività commerciali. L’indagine, denominata ‘Monopoli’, ha portato alla luce ulteriori esempi di imprese ‘mafiose’ che hanno imposto al territorio un monopolio di fatto, inquinando il libero mercato ed impedendo agli imprenditori sprovvisti di sponsor mafiosi di competere in condizioni di parità. L’avvio delle investigazioni è costituito dalle concordanti dichiarazioni di tre collaboratori di giustizia riguardo agli imprenditori reggini Michele Surace e Andrea Giordano, recentemente coinvolti anche nell’operazione ‘Martingala’ in quanto indagati in concorso per auto-riciclaggio ed emissione di fatture per operazioni inesistenti. Le rivelazioni dei collaboratori hanno delineato dettagliatamente i profili dei due, affiliati di lunga data ai ‘Tegano’ di Archi ed in contatto, in particolare, con il boss Giovanni Tegano, attualmente detenuto.
Gli approfondimenti investigativi svolti dai carabinieri hanno permesso di ripercorrere le fortune del duo imprenditoriale Surace-Giordano, che hanno preso il via dall’edilizia residenziale: verso la fine degli anni ’90 realizzano il complesso residenziale ‘Mary Park’, fabbricato che ospiterà i locali dell’unica sala bingo cittadina e numerose villette a schiera, in cui era stata riservata la disponibilità di un appartamento a Giuseppe Tegano, fratello del boss Giovanni. Tale ‘vicinanza’, nel tempo, ha garantito ai due imprenditori un eccezionale sviluppo economico: gli accertamenti esperiti hanno permesso di documentare il reimpiego dei proventi illeciti della cosca in diversificate iniziative imprenditoriali affidate a Surace e Giordano, divenuti nel tempo un tassello fondamentale del sistema di riciclaggio e reinvestimento dei proventi illeciti della ‘famiglia’. La consapevolezza del proprio ruolo negli affari illeciti dei Tegano e il timore dei provvedimenti che la Procura reggina avrebbe potuto adottare sulla base delle indagini scaturite dalle dichiarazioni di collaboratori di giustizia, ha indotto Surace e Giordano ad avviare una serie di manovre societarie funzionali a schermare la reale titolarità delle imprese a loro riferibili, sottraendole ad eventuali aggressioni patrimoniali. Il monitoraggio investigativo di Andrea Giordano e Michele Surace ha definitivamente comprovato come le società operassero sotto il loro diretto e continuo controllo. Gli indagati sono stati infatti ‘immortalati’ mentre gestivano personalmente le maestranze sui cantieri edili e i dipendenti degli uffici commerciali, ordinavano materiale presso i fornitori, accompagnavano i potenziali acquirenti nelle visite agli immobili in vendita e tenevano tutti i rapporti con il commercialista di fiducia, tutti ruoli assolutamente incoerenti con gli assetti societari formali.
Tra le attività economiche paradigmatiche del rapporto fra Surace-Giordano e i Tegano c’è la sala bingo di Archi, la cui proprietà è da ricondurre, in parti uguali, a Giovanni Tegano ed al binomio Surace-Giordano, con una sostanziale spartizione di utili tra appartenenti alla stessa organizzazione criminale. Dopo l’apertura della sala bingo – avviata nel 2001 ed allocata in un immobile del complesso ‘Mary Park’ – nel 2008 è lo stesso Michele Surace a trasferirne la titolarità formale al cognato Bruno Mandica, mantenendone comunque l’effettiva disponibilità insieme al socio Giordano. Anche in questo caso ne forniscono evidenza definitiva le attività tecniche sviluppate dal Nucleo Investigativo, che hanno ripreso i continui trasferimenti di denaro contante che Mandica preleva direttamente dalle casse del bingo e consegna nelle mani dei Surace e di Giordano. Nel corso delle indagini sono stati censiti almeno 15 episodi, fra dazioni e ‘prelievi’, in grado di mettere in luce come il lucroso esercizio pubblico – capace di fatturare oltre 10 milioni di euro all’anno – costituisca vero e proprio ‘sportello bancomat’ a disposizione dei due soci occulti. Il quadro indiziario ha rivelato, inoltre, come la sala bingo di Archi, unica nel territorio del capoluogo, operasse evidentemente in regime di monopolio imprenditoriale, non certo in ragione di un fisiologico equilibrio fra domanda e offerta nel settore del gioco, bensì in virtù di accordi stipulati dalla famiglia Tegano, titolare dell’iniziativa imprenditoriale, con le altre componenti della ‘ndrangheta cittadina. In tali condizioni, la sala bingo di Archi non poteva che prosperare indisturbata per quasi 20 anni, evidentemente grazie alla forza di intimidazione promanante dal prestigio criminale dei Tegano e dall’alterazione delle regole del libero mercato da esse derivate. Nel corso delle investigazioni è stata documentata anche l’attività di autoriciclaggio di parte della liquidità prelevata da Michele Surace dalla sala Bingo di Archi.
Tali somme di denaro sono state impiegate dall’imprenditore nell’ambito della gestione della società ‘Construction Italy’, fittiziamente intestata a Demetrio Modafferi. Inoltre, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e i riscontri operati dai carabinieri hanno indicato Michele e Giuseppe Surace come soggetti che, presso le rispettive attività commerciali, erano soliti concedere prestiti agli avventori. I destinatari della linea di credito offerta da padre e figlio erano soprattutto i clienti della sala bingo: quando rimanevano sprovvisti di liquidità per continuare a giocare, si rivolgevano a Michele Surace. Dalla lettura congiunta degli elementi acquisiti si è ricavato con certezza che i Surace hanno posto in essere – in un contesto professionale e in modo continuativo e non occasionale – condotte di finanziamento rivolte ad una schiera di svariati avventori delle rispettive attività commerciali.
Con riferimento alla famiglia De Stefano di Archi, gli approfondimenti hanno interessato un terzo imprenditore edile, Carmelo Ficara. Rispetto a Surace e Giordano, assolutamente intranei al sodalizio criminale di riferimento, Ficara può essere considerato l’uomo d’affari a disposizione della ‘ndrangheta, rispetto alla quale diviene, progressivamente, un concorrente esterno. Gli accertamenti per ricostruire la sua intera storia imprenditoriale, insieme agli esiti delle attività tecniche, hanno permesso di ricostruire le numerose cointeressenze imprenditoriali tra Ficara ed il binomio Giordano-Surace, nonché uno storico rapporto di amicizia esistente in particolare tra Ficara e Surace. Il quadro indiziario raccolto ha messo in risalto il ruolo che Ficara ebbe nel 2010 nell’ambito dei lavori di ristrutturazione del Museo Nazionale della Magna Graecia di Reggio Calabria; si è accertato, infatti, che, in quella circostanza la cosca De Stefano aveva imposto, tra l’altro, all’amministratore della ditta Co.Bar., a cui erano stati affidati i lavori in questione, l’affitto un magazzino di proprietà di Ficara da adibire a deposito temporaneo dei reperti archeologici.
La vicenda dei lavori al museo cittadino era stata già oggetto, in passato, dell’indagine ‘Il principe’ e in quella circostanza l’attenzione degli inquirenti fu incentrata su una serie di estorsioni consumate dalla cosca De Stefano e sul ruolo di primissimo livello rivestito da Giovanni De Stefano, figlio del defunto boss della cosca Giorgio De Stefano. L’inchiesta ha ricostruito le tappe della storia imprenditoriale di Ficara, il cui punto di partenza emerge dalle risultanze giudiziarie del procedimento ‘Alta tensione’, definito con l’accertamento di attività estorsive consumate in danno di imprenditori edili operanti nei quartieri reggini di Modena e Ciccarello da parte delle cosche Caridi-Borghetto-Zindato e delle modalità d’infiltrazione occulta della ‘ndrangheta in quel settore imprenditoriale. In quel procedimento era emerso come tra gli imprenditori vittime di estorsione vi fosse anche Ficara. Tuttavia le indagini avevano anche accertato come l’imprenditore avesse già significativamente diminuito la sua attività edilizia nei quartieri Modena e Ciccarello, spostandole in quello di Archi e nelle zone limitrofe. Gli accertamenti del Nucleo Investigativo nell’ambito di questo procedimento hanno acclarato gli esatti contorni entro i quali Carmelo Ficara e i suoi familiari decisero di denunciare i fatti di cui erano stati vittima. Il costruttore, infatti, a seguito di quegli accadimenti, aveva richiesto l’intervento dei De Stefano per appianare i suoi burrascosi rapporti con i Borghetto-Zindato del quartiere Modena, e da tale iniziale protezione il rapporto è successivamente evoluto, fino a consentirgli di assumere il ruolo di imprenditore di riferimento della potente cosca; ed infatti, a decorrere dal 2007, Carmelo Ficara ha concentrato nel quartiere Archi e zone limitrofe gran parte delle sue iniziative imprenditoriali, realizzando numerosi, rilevanti complessi residenziali grazie alla protezione offerta dal sodalizio. Si comprende, pertanto, come Ficara non appartenga a quella categoria di imprenditori subordinati, assoggettati all’organizzazione criminale con l’intimidazione, quanto piuttosto a quella degli imprenditori ‘collusi’ in grado di instaurare con il sodalizio mafioso un rapporto fondato su reciproci vantaggi.