“Non si può morire così”: la tragedia di Cecilia e il fallimento di una società

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“Non si può morire così.”
È una frase che abbiamo sentito molte volte nella vita. Di solito la associamo a morti ingiuste, violente, o che riguardano persone indifese o fragili. Nel nostro mondo, il concetto di morte è cambiato profondamente nel corso del tempo: da evento sacro e collettivo, è diventato sempre più privato, silenzioso, quasi rimosso.

Nell’antica Grecia, la morte era parte integrante della vita: i riti funebri erano solenni e pubblici, e l’eroismo in battaglia garantiva una memoria eterna. I Romani, pragmatici e rituali, la affrontavano con dignità e ordine, affidandosi agli dei e alla legge. Con il cristianesimo, la morte ha assunto un significato spirituale: non più fine, ma passaggio, la sofferenza terrena diventava preludio alla salvezza, e il lutto si trasforma in speranza.

Oggi, però, quando una donna viene travolta da un’auto guidata da un bambino di 13 anni, rubata poche ore prima, quel senso di sacralità si frantuma. La morte torna a essere scandalosa, insopportabile, assurda.

La cronaca: una mattina qualunque, una tragedia assurda

Lunedì 11 agosto 2025, ore 7:30 circa, Cecilia De Astis, 71 anni, stava aspettando il tram sul marciapiede di via Saponaro, nel quartiere Gratosoglio di Milano, quando è stata travolta da una Citroën DS4 lanciata a tutta velocità. Alla guida c’era un bambino di 13 anni, accompagnato da altri tre minorenni, e residenti in un campo abusivo.

L’auto era stata rubata la sera precedente a una coppia di turisti francesi. I quattro bambini, tra gli 11 e i 13 anni, hanno preso il veicolo e si sono messi in strada senza alcuna consapevolezza del pericolo. Dopo l’impatto, sono fuggiti a piedi, ma sono stati identificati grazie alle immagini delle telecamere di sorveglianza, che li hanno ripresi con magliette raffiguranti personaggi dei Pokémon.

Essendo tutti minori di 14 anni, non sono imputabili penalmente secondo la legge italiana. La Procura dei Minori sta valutando misure alternative, come l’allontanamento dalle famiglie o l’affidamento a strutture protette. Intanto, la città è sotto shock, e il dibattito pubblico si è acceso su più fronti: dalla sicurezza urbana alla responsabilità genitoriale, fino alla gestione dei campi rom e alla tutela dei minori.

La questione giuridica: cosa dice la legge sui minori

Nel cuore della tragedia di via Saponaro si apre una questione delicata e spesso fraintesa: quella della responsabilità penale dei minori. In Italia, i bambini sotto i 14 anni non possono essere imputati penalmente. Lo stabilisce l’articolo 97 del Codice Penale, che presume per loro l’incapacità di intendere e di volere. In altre parole, la legge ritiene che non abbiano ancora sviluppato pienamente la consapevolezza necessaria per comprendere il significato delle proprie azioni e controllare i propri impulsi.

Questa norma, che affonda le radici in principi pedagogici e giuridici condivisi a livello internazionale, ha lo scopo di proteggere i minori da un sistema punitivo che non sarebbe in grado di rieducarli. Ma di fronte a episodi come quello di Milano, la domanda sorge spontanea: davvero non si può fare nulla?

La risposta è più complessa. Sebbene i bambini coinvolti non possano essere processati né condannati, non significa che restino impuniti. La Procura dei Minori può attivare misure amministrative e di tutela. Sono strumenti pensati per interrompere un percorso di marginalità e offrire un’alternativa. Ma funzionano davvero? E soprattutto, sono sufficienti quando la devianza si manifesta in forme così gravi e precoci?

Il prezzo dell’indifferenza

La morte di Cecilia De Astis ha scoperchiato una realtà che molti preferiscono ignorare: quella dei bambini invisibili, cresciuti ai margini, senza istruzione, senza regole, senza futuro. Il fatto che quattro minori abbiano potuto rubare un’auto e guidarla per le strade di Milano senza che nessuno li fermasse è il sintomo di un fallimento collettivo: educativo, istituzionale, urbano. Nel mezzo, resta una domanda che nessuno sembra voler affrontare davvero: cosa significa essere bambini in Italia oggi, se nascere in un campo abusivo equivale a essere condannati all’esclusione?

Un pensiero per Cecilia e per chi resta

Cecilia aveva 71 anni. Era una donna che stava semplicemente aspettando il tram, in una mattina d’agosto, quando la sua vita è stata spezzata da un gesto insensato. Non c’è giustificazione, non c’è spiegazione che possa lenire il dolore di chi l’ha amata.

Una responsabilità che ci riguarda tutti

La morte di Cecilia De Astis non è solo una tragedia individuale. È lo specchio di una società che ha smesso di guardare negli occhi i suoi margini. Bambini che crescono senza scuola, senza regole, Quartieri dimenticati, dove il degrado non è solo urbanistico, ma umano. Istituzioni che intervengono solo dopo il disastro, e un dibattito pubblico che si accende per indignazione, ma si spegne per abitudine.

Non possiamo limitarci a chiedere giustizia, né accontentarci di misure tampone. Serve una responsabilità collettiva: politica, educativa, sociale. Serve il coraggio di affrontare la complessità, senza semplificazioni ideologiche. Perché ogni bambino che ruba un’auto e uccide una donna non è solo un colpevole: è anche il prodotto di un fallimento che ci riguarda tutti.

E allora sì, “non si può morire così”. Ma non si può nemmeno continuare a vivere ignorando ciò che ci circonda.

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