S. MARIA C.V. – Urla, cori, bastoni e barricate: quella del 5 aprile 2020 organizzata dai detenuti del reparto Nilo non fu assolutamente una protesta pacifica. La notizia che il Covid-19 si fosse fatto largo nella prigione ‘Francesco Uccella’ era iniziata a circolare con forza, creando inevitabilmente panico. E quella tensione sfociò in rabbia, in atteggiamenti violenti. Ma in poche ore, e con tanto lavoro, la rivolta rientrò.
A darne conferma sono stati diversi carcerati durante gli interrogatori resi ai pubblici ministeri Daniela Pannone e Alessandro Pinto, che hanno coordinato l’inchiesta sui pestaggi nel penitenziario avvenuti 24 ore dopo la protesta: “Le brande – ha raccontato uno dei protagonisti della sommossa – vennero messe davanti ai cancelli della nostra sezione quando ci siamo trovati al cospetto del comandante, della commissione e della cosiddetta sorveglianza, ossia un gruppo di agenti che interviene quando ci sono situazioni di tensione all’interno del carcere”. Ma grazie alla mediazione anche di quattro detenuti di altre sezioni, indicati dalla penitenziaria, avute rassicurazioni, chi protestava si convinse a togliere le barricate. Avevano manifestato (animatamente) per essere protetti dal virus. “E dopo aver rimosso le brande – ha continuato il detenuto -, a distanza di pochissime ore, ci sono state consegnate le mascherine”.
Il giorno successivo prese il via quella che il giudice Sergio Enea, nell’emettere le 52 misure cautelari nei confronti di altrettanti appartenenti al Dipartimento di polizia penitenziaria, ha definito l’orribile mattanza. In cosa è consistita? In perquisizioni straordinarie, attivate ‘a freddo’, ad ore di distanza dalla rivolta sedata, che secondo la Procura di S. Maria Capua Vetere sarebbero sfociate in torture, lesioni e maltrattamenti solo per dare “un segnale forte” a chi aveva osato protestare.
E tra le vittime della mattanza c’è anche uno dei detenuti che aveva mediato affinché venissero tolte le barricate. A raccontarlo ai magistrati è stato lui in prima persona: “Alle 16 e 30 del 6 aprile – ha riferito – non venne operata la cosiddetta conta mediante l’apertura delle celle. La cosa ci insospettì. Ed infatti 20 minuti dopo arrivarono circa una cinquantina di agenti nel corridoio della mia sezione. Dinanzi alla mia cella si presentò un agente in borghese […] il quale ci invitò ad uscire per procedere ad una perquisizione. Ci fecero collocare al muro del corridoio della sezione con le mani alzate”.
Nel controllare la sua cella trovarono un cavetto per ricaricare un cellulare. E il detenuto, su invito dei poliziotti, indicò pure dove fosse nascosto il telefonino. “Una volta consegnato ho ricevuto due schiaffi. Prima avevo già ricevuto uno schiaffo dietro la nuca”. Successivamente venne portato al piano terra: “Due agenti mi portarono via con la forza e durante il tragitto sono stato fatto oggetto di violenze: calci e ginocchiate da parte di diversi agenti collocati nel corridoio della sezione su entrambi i lati, come a formare un corridoio umano […] Sono arrivato alla cosiddetta rotonda principale del Nilo, quella collocata al piano terra. […] Percorsi l’intero corridoio fino all’area matricola. Era pieno di agenti, sempre disposti su ambo i lati, alcuni con i caschi e manganelli. Con la testa rivolta verso il basso, ricevetti continui colpi, consistiti in schiaffi, pugni, calci e manganellate. Fu un vero inferno”.
Venne portato, poi, in una cella della matricola dove si trovavano altri due detenuti. “Uno aveva un occhio nero e perdeva sangue da un orecchio, all’altro gli era stato strappato un pezzo di barba”. E dopo l’ennesimo spostamento raggiunse la cella “dove solitamente avviene la prima accoglienza”. “Rimasero quattro, cinque agenti con atteggiamento intimidatorio. Volevano a tutti i costi sapere chi mi avesse consegnato il telefono. Mi picchiarono con diversi schiaffi”.
Ma non volle rivelare il nome perché, ha chiarito al magistrato, “si trattava di un soggetto pericoloso per la famiglia”. E così, dicendo il falso, agli agenti riferì che gli era stato dato da un loro collega, grazie alla mediazione di un altro detenuto, che però non sapeva riconoscere. “Successivamente – ha aggiunto – venni portato alle celle del Danubio. Lungo il tragitto fui accompagnato da altri due agenti che mi fecero oggetto di violenza”. E i segni dei colpi subiti sono stati tracciati nell’accertamento medico-legale disposto dalla Procura: un trauma escoriativo al braccio ed al cavo popliteo a sinistra ed un politrauma contusivo alla nuca e ai quatto arti (nelle foto). Lesioni che trovano compatibilità, ha messo nero su bianco il medico che l’ha visitato, con le aggressione da lui subite riferite ai magistrati.
L’indagine sui pestaggi ha coinvolto complessivamente 117 indagati. Per 52, tutti appartenenti al Dipartimento di polizia giudiziaria, sono scattate altrettante misure cautelari (8 in carcere, 18 ai domiciliari, 3 obblighi di dimora e 23 interdizioni dall’attività lavorativa). A vario titolo rispondono di torture, lesioni, maltrattamenti, falso, favoreggiamento, frode processuale e depistaggio. Ipotesi di reato pesanti, ma che dovranno essere vagliate nei corsi degli eventuali processi che innescherà l’inchiesta.