ROMA (LaPresse) – La procura di Roma ha affidato alla Digos l’incarico di svolgere i primi accertamenti. A seguito dell’istanza di riapertura delle indagini sull’omicidio di Mino Pecorelli. Il giornalista ucciso nella capitale il 20 marzo del 1979. Un paio di mesi fa è stato l’avvocato Valter Biscotti, per conto di Rosita Pecorelli, sorella 84enne della vittima, a invitare i pm di piazzale Clodio ad approfondire il capitolo legato al sequestro, avvenuto a Monza nel 1995. Di alcune armi attribuite all’epoca a Domenico Magnetta, ritenuto in passato legato ad Avanguardia Nazionale.
La Digos per i primi accertamenti del caso Pecorelli
Armi che nessuno mai avrebbe messo a confronto con i quattro proiettili che hanno ucciso Pecorelli in via Orazio, nel quartiere Prati. E che potrebbero ancora trovarsi nell’ufficio dei corpi di reato del Tribunale brianzolo. Nella richiesta si è fatto pure riferimento a una dichiarazione resa nel 1992 all’allora giudice istruttore Guido Salvini dall’ex estremista di destra Vincenzo Vinciguerra. Che sosteneva di sapere, per aver sentito in carcere un dialogo tra due ex esponenti di Avanguardia Nazionale, che Magnetta, fermato a Monza tre anni dopo, sarebbe stato colui che avrebbe avuto in custodia la pistola Beretta 7.65 silenziata utilizzata per uccidere Mino Pecorelli. Grazie a queste informazioni, raccolte da ‘Estreme Conseguenze’, adesso il caso potrebbe essere riaperto.
Il caso Pecorelli dal punto di vista processaule è chiuso dal 30 ottobre del 2003. Quando la Cassazione assolse definitivamente Giulio Andreotti dall’accusa di essere il mandante dell’agguato. In primo grado, il 24 settembre del 1999, il sette volte presidente del consiglio fu assolto per non aver commesso il fatto assieme ai presunti mandanti Gaetano Badalamenti, Claudio Vitalone, Pippo Calò e a due imputati accusati di essere gli esecutori materiali del delitto, cioè Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera. Il 17 novembre del 2002, in appello, invece, fu confermata l’assoluzione per tutti ad eccezione di Andreotti e Badalamenti che vennero condannati a 24 anni di reclusione. Condanna che la Suprema Corte spazzò via annullando senza rinvio la sentenza di secondo grado.