Schiavone pentito. Il funzionario comunale e l’imprenditore uccisi: ora si spera nella verità

I colpevoli dei due delitti ancora impuniti: il capoclan potrà dare nuovo impulso alle indagini

Francesco Schiavone Sandokan

CASAL DI PRINCIPE – I motivi della collaborazione con la giustizia, l’affiliazione alla mafia, poi i crimini più cruenti di cui si è macchiato in prima persona, quelli che ha ordinato, i delitti a cui ha assistito o sui quali ha avuto informazioni da altre persone. E a seguire i legami con l’imprenditoria e la politica. È il classico schema che caratterizza gli interrogatori dei neopentiti nella prima fase della collaborazione con la giustizia. Ed è lo schema che, a quanto pare, hanno adottato anche i magistrati che stanno ascoltando da circa un mese Francesco Schiavone Sandokan (nella foto in alto). È entrato in carcere nel 1998, dopo aver guidato, da uomo libero, per circa un decennio, il clan dei Casalesi da lui fondato a seguito della morte ‘presunta’ del sanciprianese Antonio Bardellino, che sarebbe avvenuta nel 1988, e l’assassinio di Mario Iovine avvenuto a Caserta. Ed ora, avendo deciso di riconoscere quello Stato di cui non accettava le regole, avendo scelto di confessare tutto ciò che sa sulla mafia, ha la possibilità di aiutare gli investigatori a risolvere i tanti cold case riguardanti soprattutto il periodo in cui si muoveva senza ceppi per la provincia di Caserta. Acquisito il perché del suo ‘pentimento’, al capoclan tocca far luce sugli omicidi dei quali non si hanno ancora i colpevoli. E tra questi c’è il delitto di Giuliano Pignata, avvenuto nella notte tra il 2 e il 3 gennaio 1988, pochi mesi prima della missione criminale che portò alla destituzione di Bardellino. La vittima era un funzionario comunale che avrebbe fornito documenti falsi all’associazione mafiosa. L’uomo venne prelevato all’uscita da una bisca, strangolato e poi buttato in un pozzo e successivamente seppellito altrove. In relazione a questo assassinio, venne condannato in primo grado soltanto Francesco Schiavone Cicciariello. Ma nei gradi successivi anche lui ottenne l’assoluzione.
La decisione di prendere il cadavere e portarlo in un altro luogo rispetto al pozzo dove era stato in prima battuta messo fu presa dai vertici del clan a seguito della collaborazione con la giustizia di Luigi Basile. Il delitto Pignata è stato anche affrontato dall’inchiesta Spartacus.

Pignata aveva 52 anni e nel 1983 era già stato arrestato con l’accusa di aver falsificato i documenti di identità di Antonio Bardellino. L’auto venne trovata vicino alla stazione ferroviaria di Aversa.
Altro delitto irrisolto è quello di Luigi Iannotta, imprenditore e assessore al Comune di Capua, già vicepresidente del Consorzio di inerti calcarei (Covin) avvenuto a S. Maria Capua Vetere, in via Giovanni Paolo I.

Era il 19 aprile 1993: sono passate da poco le 20 e 30. Il killer lo chiama per nome: è il suo appuntamento con la morte. Iannotta si gira e viene freddato con una pistola calibro 38: cinque dei sei proiettili esplosi lo colpiscono. L’attività investigativa avviata subito dopo l’agguato non portò ad alcun risultato. Ma la Dda, su input della famiglia della vittima, tornò ad occuparsi del caso nel 1996: interrogò alcuni collaboratori di giustizia che collegarono l’omicidio al clan dei Casalesi. Tra i pentiti che vennero ascoltati dai magistrati ci fu Raffaele Caianiello: “Izzo mi spiegò che lui stesso doveva partecipare all’esecuzione materiale dell’omicidio insieme ad Arcangelo Parente, deceduto in un incidente stradale nel 1993”. Ma tale Izzo, per motivi ignoti a Caianiello, non prese più parte all’agguato. A sostituirlo sarebbe stato un giovane che sarebbe diventato, da lì a poco, il capozona del Basso Volturno: “Al suo posto partecipò Alfonso Cacciapuoti (tornato libero dalla scorsa estate, ndr). L’omicidio in questione era stato ordinato da Cantiello (Antonio, ndr) che aveva consegnato a lui (a tale Izzo, ndr) la calibro 38 per uccidere Iannotta. Lui stesso aveva poi consegnato ai due esecutori materiali la pistola poiché non avrebbe più partecipato all’omicidio. La pistola rimase a disposizione di Parente fino a quando non morì. Io stesso e Izzo, dopo la scomparsa di Parente, fummo incaricati da Cantiello di andare a recuperare la pistola”. Se Caianiello parlò agli inquirenti del presunto esecutore materiale, è Carmine Schiavone, cugino del capoclan Francesco Sandokan, invece, che rivelò il presunto movente: “Iannotta, contro le nostre decisioni, aspirava a diventare presidente del Covin, che nel frattempo si era sciolto e che cercava di riattivare. Di tale omicidio e dello scioglimento del consorzio appresi notizie mentre ero in carcere”.

Insomma, agli occhi della mafia dell’Agro aversano Iannotta era un imprenditore scomodo che non sottostava ai propri ordini. E per tale ragione sarebbe stato ucciso.

Gli elementi raccolti finora non sono stati ritenuti sufficienti, dice la Dda, per individuare quelli che potrebbero essere mandanti ed esecutori del delitto di Iannotta. Per gli inquirenti le dichiarazioni di Caianiello e Schiavone non sarebbero bastate a strutturare un’accusa che potesse reggere in un dibattimento. Il pentimento di Francesco Schiavone Sandokan, però, rappresenta un’occasione investigativa importante non solo per fare luce sull’assassinio dell’ex assessore di Capua o del funzionario comunale, ma anche su altri tanti casi simili: troppe le famiglie di vittime del clan che attendono da decenni giustizia. E con Sandokan pentito, probabilmente, potrebbero finalmente averla. E con le rivelazioni di Schiavone è possibile che storici affiliati, recentemente scarcerati, possano finire di nuovo in cela.

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