Allontanarsi dal proprio paese per cercare – e trovare – all’estero la possibilità di realizzare le proprie attitudini, le proprie idee e perché no i propri sogni. Si tratta dei ‘cervelli in fuga’, una sintesi colorita che delinea un fenomeno migratorio scientifico e che porta lontano dall’Italia tantissimi studenti e ricercatori. Ne è l’esempio il Politecnico di Zurigo, con oltre 1200 tra ricercatori, studenti e professori italiani, oggi visitato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a conclusione della sua vita di Stato in Svizzera. E l’emozione per questi italiani è tanta, “non capita tutti i giorni di poter parlare col presidente”, confessa quasi commossa Annalisa.
Il capo dello Stato ascolta, osserva e con interesse partecipa anche alle dimostrazioni come quella dell’esoscheletro. Tra i progetti quello di Stefano Brusoni su Tecnologia e Innovazione, di Viola Becattini sulla cultura, trasporto e stoccaggio CO2, di Paola Picotti sui biomarcatori per la diagnosi del Parkinson e infine di Michele Gregorini che con la sua azienda vuole proporre test PCR veloci, affidabili e a prezzi accessibili, non solo per il Covid ma anche per la diagnosi di altre malattie come la malaria e il Papilloma virus.
Mattarella apprezza, si ferma con quelle ‘eccellenze’ italiane che hanno portato “la creatività” fuori confine e saluta gli studenti firmando di suo pugno una bandiera italiana. “La collaborazione scientifica e tecnologica fra la Svizzera e l’Italia” è “una delle dimensioni più rilevanti del nostro partenariato bilaterale”, sostiene l’inquilino del Colle ricordando che “sin dall’inizio dello scorso Millennio, le Università sono state alla base e alle fondamenta dell’Europa, offrendo un tessuto connettivo e favorendo una prima forma di integrazione nell’ambito di quella respublica literaria che per secoli ha unito i migliori spiriti del continente”.
Il capo dello Stato punta il faro sull’importanza di questo “interscambio” di cui “la persona costituisce l’elemento di raccordo tra le varie discipline”. Con la consapevolezza, tuttavia, che molti dei nostri ricercatori, studenti e professori, varcano i confini italiani sempre più spesso, per necessità. Lo racconta a LaPresse Annalisa, nata a Bari e laureata a Pisa in ingegneria nucleare e poi migrata prima in Olanda poi a Zurigo. “Con il master il mio professore di fisica mi ha connesso con l’Olanda e ci sono rimasta per il dottorato, quando si va all’estero è difficile tornare – ammette – Perché? Perche vent’anni fa la carriera di dottorato era bloccata e richiedeva anni di precariato, notevole e incerto, a quel punto rimanere all’estero era più facile, perché c’è imbarazzo della scelta”.
Tornerebbe in Italia? “No, almeno non per lavoro, ma per le vacanze ci torno tutti gli anni”. Anche Noemi, 26 anni, laureata al Politecnico di Milano, non ha dubbi: “La percezione è che in Italia la ricerca è presa sottogamba, dopo anni magari ti si aprono solo le porte degli stage. Tornare in Italia? Chissà…. se le cose cambiassero, se ci fosse la voglia di cambiare mi piacerebbe tornare, mi piacerebbe portare in Italia quello che ho imparato”.(LaPresse)