L’omicidio che ha trasformato il clan dei Casalesi

Perché il boss è stato sempre ossessionato dalla riservatezza. Ha cercato di nascondere sistematicamente i suoi business, di proteggere i colletti bianchi che gli garantivano denari e protezione

CASAL DI PRINCIPE – E’ stata la sua prima da pentito. Il figlio di Sandokan, il 20 novembre scorso, ha indossato in pubblico i panni del collaboratore di giustizia. Lo ha fatto nel processo a carico di Michele Zagaria. Per la Dda Capastorta ha ordinato gli omicidi di Michele Iovine e Antonio Bamundo. Il primo è stato assassinato a Casagiove, sotto casa sua. Era il 28 gennaio del 2008: aveva 55 anni. Il secondo, invece, è stato ucciso l’11 maggio del 2000 a San Marcellino.

‘ELIMINARE ZAGARIA’

Nicola Schiavone, in videocollegamento con il tribunale di Napoli, ha accusato un altro padrino del clan. Ha incolpato un ex amico che dopo il 2008 era arrivato ad un passo dall’ammazzarlo. “Avevo intenzione di uccidere Zagaria. Ero passato alle vie di fatto”. Ma quando l’avvocato Andrea Imperato, il difensore di Capastorta, gli ha chiesto di spiegare i dettagli del piano, è stato lo stesso Schiavone a fermarsi. “Credo di non poterlo dire. Sono ancora nei 180 giorni”. E a dargli manforte sono stati il pm Simona Belluccio e il giudice Giuseppe Provitera, presidente della quarta sezione della Corte d’Assise partenopea. “E’ vero – hanno confermato i magistrati. – Sul punto Schiavone può rispondere, ma solo genericamente”. E per sommi capi il primogenito del capoclan ha confermato di essere stato vicino a far fuori Michele Zagaria. “Facevamo appostamenti. Ci stavamo organizzando. Lo avevamo programmato”.

LA ROTTURA CON CAPASTORTA

Del delitto di Angelo Bamundo Nicola Schiavone sa nulla. Era troppo giovane. Alla Corte ha raccontato soltanto della morte di Iovine. E tra il boss di Casapesenna e il figlio di Sandokan i rapporti cominciarono ad incrinarsi proprio dopo il raid del 2008. “Non si tratta di questioni personali – ha affermato il neopentito. – Quello che provavamo noi lo mettevamo sempre da parte. Prima di ogni cosa c’erano gli interessi del clan. Per tale ragione non eravamo mai arrivati ad una vera e propria faida. Reagivamo in modo diverso. Io e Zagaria, ad esempio, ci facevamo la guerra per ‘procure’”.

Poi, però, è arrivata la rottura definitiva. Una flessione pericolosa. L’idea di eliminare fisicamente Capastorta, ha chiarito Schiavone, fu dettata “da motivi che riguardano l’organizzazione”. Ma anche su questo tema il collaboratore non è andato oltre. Indagini in corso.

IL DELITTO IOVINE

“L’omicidio di Michele Iovine è stato uno spartiacque”. La vittima, ha aggiunto il pentito, “era il referente del clan su Caserta e paesi limitrofi. Era un lontano parente di Antonio Iovine”.

Prima di ucciderlo, però, Zagaria avrebbe tentato di coinvolgere Schiavone. “Mi disse che c’erano stati problemi con alcuni lavori a Caserta. Che erano stati incendiati vari cantieri”.

E il boss di Casapesenna attribuiva la responsabilità di quegli squilibri proprio a Michele Iovine. Voleva punirlo. “Io presi tempo. Chiesi di fare altri accertamenti. Mi sembrava strano, qualcosa di allucinante”.

Perché Iovine era stato scarcerato da poco. E tornato in libertà il clan lo aveva trattato con rispetto, riassegnandogli il posto che aveva occupato in precedenza: la responsabilità del casertano.

IL RUOLO DI PANARO

Registrata la resistenza di Schiavone, Zagaria andò oltre: si rivolse a Nicola Panaro. “Eravamo una famiglia. Già ricoprivo un ruolo di reggenza”. Se avesse voluto, avrebbe potuto bloccare tutto. “Mio cugino (Panaro, ndr.), però, aveva dato la sua parola. Non potevo fargli fare brutta figura. Così non mi opposi”.

Il passo successivo riguardava la preparazione del raid. Avrebbero dovuto organizzare l’agguato insieme: schiavoniani e zagariani. Ma Capastorta, ha dichiarato il pentito, fece tutto da solo. E lo fece subito, non informando Panaro. “Si giustificò dicendo che aveva avuto un’occasione buona”. E per non perderla agì in proprio.

IL DISEGNO DI ZAGARIA

“Era una scusa che non reggeva”. Dietro quel gesto, dietro la volontà del boss di Casapesenna di far fuori Michele Iovine, in realtà, per Schiavone c’era un altro motivo. “A Caserta voleva piazzare sue persone di fiducia in modo tale che a noi del clan non giungessero informazioni sui propri affari in quell’area”.

Perché Zagaria è stato sempre ossessionato dalla riservatezza. Ha cercato di nascondere sistematicamente i suoi business, di proteggere i colletti bianchi che gli garantivano denari e protezione. Caratteristiche che gli hanno garantito una latitanza lunga 16 anni.

IL TERRORE NEL CLAN

L’omicidio di Iovine fece rumore. Anzi, creò terrore all’interno dell’organizzazione. “A casa di Adolfo Scalzone incontrai Ernesto De Luca ‘o mastrone. Era in contatto con Antonio Iovine. Temeva che l’agguato fosse un colpo diretto a loro”.

IL DISINTERESSE DI ‘O NINNO

Il pentito ha raccontato di aver cercato di ‘smuovere’ ‘o ninno. “Lo punzecchiai. Michele Iovine era un suo parente. Gli chiesi cosa fare, come reagire a Zagaria. Ma scrollò le spalle. Mi disse: ‘Che aggia fa’”. La volontà di non ribellarsi manifestata da boss di San Cipriano non sorprese soltanto Schiavone. “Del suo atteggiamento (di ‘o ninno, ndr.) – ha aggiunto il pentito – mi parlò successivamente lo stesso Zagaria: ‘Si è fatto ammazzare un parente e non ha detto una parola. Non ha neppure un grammo di sangue nelle vene’”.

IL PROCESSO

L’ergastolano di Casapesenna ha seguito l’intera udienza senza intervenire. Seduto e con le gambe accavallate. Stavolta nessuna dichiarazione spontanea. Soltanto qualche telefonata da L’Aquila al suo legale. La Corte, con la testimonianza di Nicola Schiavone, ha dichiarato chiusa l’istruttoria dibattimentale. Il prossimo 29 gennaio il pm Belluccio formulerà la richiesta di pena per Zagaria. In quella data terranno le arringhe difensive anche gli avvocati Imperato e Angelo Raucci.

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