MILANO – “Le industrie stanno lavorando giorno e notte e richiedendo componenti e materie prime per il triplo dei consumi normali. La pressione è alta”. Marco Mariotti, imprenditore del settore siderurgico, non si sarebbe immaginato uno scenario simile per l’industria dell’acciaio un anno fa. La pandemia ha spinto i prezzi delle materie prime oltre ogni aspettativa. E così le aziende abituate a importare dall’Asia a prezzi contenuti, hanno dovuto fare i conti con incertezza, ritardi, difficoltà nelle scorte. E un “totale ingolfamento dell’offerta rispetto alla domanda”, spiega a LaPresse l’imprenditore, vicepresidente vicario di Apindustria Brescia e membro di giunta nazionale Confapi.
Gli effetti del Covid
Il Covid ha portato a un rialzo vorticoso dei prezzi delle materie prime. Per fare un esempio, il petrolio è passato da una media di 40 dollari al barile a una di 65 circa, mentre negli acciai il laminato a caldo è salito da circa 380 euro la tonnellata a 750 euro. Dopo un iniziale calo legato allo stop della domanda, infatti, si è registrata un’impennata legata a diversi fattori. In primo luogo “il consumo industriale di metalli derivanti dalla Cina, il consumatore più importante a livello mondiale di materie prime”, che “ha avviato una politica fiscale incentrata sugli investimenti pubblici piuttosto aggressiva a partire da aprile 2020 e questo ha comportato un forte aumento dei consumi a livello mondiale”, afferma a LaPresse Gianclaudio Torlizzi, direttore generale della società di consulenza finanziaria T-Commodity.
La filiera produttiva
La filiera produttiva delle materie prime si è così “ritrovata disorientata da questo forte aumento a livello mondiale” e ha reagito “con un calo dell’offerta, contribuendo a creare una grossa tensione”. Tra gli altri fattori, il “forte aumento degli ordinativi” nell’industria manifatturiera”, dettata da un cambio dei consumi che ha portato molti consumatori ad acquistare prodotti “fortemente voraci di materie prime”, in settori come l’immobiliare o l’automotive.
Infine l’azione super espansiva della Federal Reserve negli Stati Uniti, unita al forte piano di stimolo fiscale a vantaggio consumatori insieme a un’azione super espansiva di tipo monetario ha determinato una forte vendita del dollaro. “Dato che le materie prime sono quotate in dollari, si è assistito a un rialzo dei prezzi”, chiarisce Torlizzi. Il secondo fattore esogeno riguarda la forte fame americana di chip di semiconduttori legata in larga parte allo smartworking. Forte aumento dei consumi, dunque, e forte dei prezzi che non è stato compensato da un aumento della disponibilità di materie prime.
L’allarme delle aziende
Così tra gli imprenditori di tutto il mondo si è insinuata una nuova paura: quella di non avere più materiale per produrre. “Tante aziende stanno fermando la loro produzione in attesa di componenti”, ha commentato Mariotti. “Le industrie – continua – stanno lavorando giorno e notte e richiedendo componenti e materie prime per il triplo dei consumi normali. E’ un meccanismo che ha creato un totale ingolfamento dell’offerta rispetto alla domanda”. Mariotti ricorda che “un Kg di acciaio costava 0,4 euro a settembre. Oggi costa 1 euro al Kg e il prezzo sta continuando a salire. “Per un’azienda è difficile vedere il costo più che raddoppiato senza essere capaci di adeguare immediatamente i propri listini. Tutti stanno dicendo che i listini devono cambiare e velocemente. Nel giro di sei mesi i prodotti finiti aumenteranno di prezzo”.
Lo scenario
Lo scenario non sembra destinato a migliorare, soprattutto nel lungo periodo. “Si è creata una frattura enorme tra la disponibilità di acciaio e la domanda. C’è una ruota che sta cercando di ripartire, ma va molto più lenta rispetto alla velocità a cui il mercato si aspetta di ricevere i prodotti”, aggiunge Mariotti. “Questo – sottolinea l’imprenditore – ha creato un’esplosione delle materie prime, che avrà delle conseguenze anche sui prodotti finiti. Per ridere dicevo a un’amica: ‘Cambia la lavatrice adesso perché tra tre mesi costerà il triplo e non la troverai nemmeno. E’ un dramma’”.
La produzione
A questo punto si fa sempre più strada la necessità di riportare la produzione tra i confini domestici. Si tratta del cosiddetto ‘reshoring’, un fenomeno che prevede il rientro nel proprio Paese delle aziende che in precedenza avevano delocalizzato la propria produzione fuori dai confini nazionali. Torlizzi spiega: “In Italia non ci stiamo ancora pensando. Dalla politica l’unica azione in questo senso è stata quella della senatrice della Lega Roberta Ferrero, che ha depositato un’interrogazione al ministro dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, chiedendogli di ‘attivare, nelle sedi europee e internazionali, iniziative per garantire la tenuta delle filiere produttive, con politiche economiche tese al rientro di produzioni strategiche delocalizzate negli ultimi decenni’. Bisognerebbe in qualche modo incalzare la politica su questo, è un problema di sopravvivenza del nostro comparto produttivo”.
(LaPresse/di Francesca Conti)