Ho conosciuto Ernesto Paolozzi nel 2017: era uno dei primi appuntamenti che avvenivano attorno alla nascita di Articolo-1, che sarebbe poi diventato anche il mio partito. Spinto a quel primo incontro dalla curiosità di confrontarmi con chi proveniva prevalentemente dalla cultura politica del comunismo italiano, fu grande la mia sorpresa nel trovare tra i relatori un intellettuale notoriamente di estrazione liberale. Conoscevo infatti Ernesto – che però, rispettoso delle gerarchie accademiche, ho sempre chiamato “professore”, anche se ho rapidamente preso l’abitudine di dargli del tu – solo di nome, principalmente per il suo attivismo politico nel Pd, dal quale apprendevo con sorpresa fosse uscito proprio mentre l’area liberal vi si imponeva trionfante. Ma mi bastarono pochi minuti delle sue parole per intuire le ragioni dietro quella scelta: un intelletto così antidogmatico non poteva certo restare a proprio agio nel clima che si era manifestato, in quel frangente, dentro quel partito. C’è infatti un tratto, nel percorso di Ernesto, che balza subito agli occhi: l’inscindibilità della sua ricerca filosofica da quella politica. La sua cultura liberale e non liberista, come più volte l’ho sentito ribadire, ispirata a Benedetto Croce, del cui pensiero è noto sia stato uno dei massimi esperti, e non a Einaudi )che annoverava comunque tra i suoi riferimenti culturali), gli impediva di conformarsi alla deriva da dittatura del mercato e vittoria del più forte che tanti di coloro che tutt’ora in Italia si definiscono liberali sono finiti a difendere. Costoro si tengono così compagnia con tanti altri che invece – e lo riporto perché Ernesto non mancava, in qualche occasione, di sottolinearlo con un’ironia, sempre gentile e rispettosa, che molto mi divertiva – in epoche precedenti avevano militato nella sinistra comunista e anticapitalista. Ho avuto successivamente modo di apprezzarlo più volte durante questi pochi anni, che oggi riscopro così drammaticamente brevi, in cui le occasioni di incontro e dialogo si sono moltiplicate. Ciò è avvenuto sia per l’attivismo nella stessa area politica, a partire dalla campagna per le elezioni nazionali del 2018, che ha visto Ernesto generosamente candidato per Leu, sia per la comune partecipazione a svariate iniziative culturali, dibattiti e presentazioni di libri (con lui nel ruolo di relatore e me, perlopiù, di uditore). Tra queste occasioni, in particolare, ci fu una delle presentazioni di una sua opera che mi ha colpito molto: “Diseguali. Il lato oscuro del lavoro” (Guida editore), del 2018, testo pubblicato da Ernesto con Luigi Vicinanza, una riflessione sulle trasformazioni contemporanee del lavoro in cui, assieme al riconoscimento della pericolosità del pensiero unico neoliberista per la stessa tenuta democratica dell’Occidente, emerge con forza una critica profondamente umanista allo svilimento del lavoro e del lavoratore. Per chi, come il sottoscritto, proveniva da un percorso prevalentemente sindacale, fu particolarmente significativo incontrare una siffatta attenzione alla questione del lavoro in una persona di tale diversa estrazione. L’idea che mi sono fatto è che Ernesto, nel coltivare e manifestare questo interesse, non fosse spinto solo dalla sua straordinaria curiosità intellettuale, che si associava a una non minore umana sensibilità nei confronti degli altri, caratteristiche che tutti coloro che l’hanno conosciuto non possono aver fatto a meno di percepire e riconoscere. C’era qualcosa di più, che si rifletteva allo stesso modo nel suo ritenere che, nell’interpretare le trasformazioni dell’attuale difficilissima fase storica, liberalismo e socialismo democratico non possano fare a meno di incontrarsi: perché, praticando la politica, Ernesto era consapevole che, nell’epoca contemporanea, una proposta progressista realmente credibile non può fare a meno degli elementi migliori di queste due grandi tradizioni di pensiero, non a caso, entrambe umaniste, entrambe volte (seppur con aspetti diversi e, notoriamente, spesso complessi da coniugare tra di loro) all’emancipazione degli esseri umani. Sappiamo tutti che il principio guida della sua ricerca filosofica era la libertà, e credo che con questo rompere i recinti e creare ponti, sempre nell’ottica di un incontro e di un dialogo che arricchissero tutti gli interlocutori, Ernesto avesse trovato il modo non solo più genuino e generoso ma anche efficace di metterlo in atto. Infine, sento il bisogno di sottolineare un aspetto del suo comportamento, evidente per chiunque l’abbia conosciuto, ma che se non riportassi tra queste parole mi sembrerebbe di commettere un’ingiustizia. Nel periodo che ho brevemente ripercorso in questo ricordo non c’è stata una singola volta in cui Ernesto, nei confronti miei o degli altri compagni e amici più o meno coetanei con cui, tra le occasioni politiche e quelle culturali, ci siamo confrontati, si sia posto con atteggiamenti di superiorità. Lui che, non solo per differenza d’età, ma soprattutto in virtù della sua levatura culturale e della sua autorevolezza accademica, ben più di altri avrebbe potuto trattarci “da ragazzi”, si è sempre posto da pari a pari, senza alcun paternalismo, con un’umiltà e una gentilezza che sono sempre più difficili a trovarsi e che, prima di ogni altra considerazione, ce l’hanno reso immediatamente un punto di riferimento, nonostante la maggior parte di noi senta di provenire da una tradizione politica diversa dalla sua. L’incontro con Ernesto è stato di grandissimo impulso, e per questo e per il suo supporto, in particolare alle attività di Futuro Prossimo, che non ha fatto mai mancare, gli siamo enormemente grati.
Lorenzo Fattori: ricercatore universitario, associazione Futuro Prossimo