E’ trascorso più di un secolo da quando un Papa molto coraggioso, Leone XIII, costruì quella che, in seguito, sarebbe stata identificata come la dottrina sociale della Chiesa Cattolica. Lo fece attraverso l’enciclica Rerum novarum (Delle cose nuove) per arginare l’ideologia socialista che iniziava a dilagare in Europa e produceva sommosse ed occupazioni anche in Italia. Si era alla fine dell’800 ed all’inizio del secolo dei totalitarismi e delle due guerre mondiali. Il Vaticano manteneva ancora una netta chiusura nei confronti dello Stato italiano a causa della vicenda della breccia di Porta Pia e dell’annessione dello Stato Pontificio al regno d’Italia. Tuttavia il dilagare del marxismo ateo ed i principi che inneggiavano alla spoliazione della proprietà privata, turbavano sia le coscienze che gli interessi di molti credenti, disorientandoli anche sotto il profilo religioso. Si impose allora la necessità che la Chiesa assumesse una specifica posizione sulle questioni sociali a prescindere dalla soluzione del “contenzioso” con lo Stato italiano, mantenendo, peraltro, il divieto per i Cattolici di candidarsi e di partecipare alla vita politica. Con quell’enciclica, la Chiesa ribadì, in estrema sintesi, che la proprietà privata era un diritto inalienabile, così come lo era il salario per l’operaio, cosa quest’ultima sostenuta anche dai socialisti. In effetti i risparmi del salariato ben potevano consentire a questi la possibilità di acquistare il terreno sul quale magari lavorava. Insomma la proprietà altro non era che la “giusta ricompensa” cambiata di forma. Parimenti la Chiesa esortava a creare forme di tutela per i lavoratori, a rispettare l’identità e le libertà degli individui, a costruire società cooperative solidaristiche che procurassero tutele: il primo abbozzo di un “welfare state” come l’avremmo conosciuto in seguito. Sanità, pensioni di vecchiaia, accesso al piccolo credito cooperativo, riforma del latifondo, furono le colonne di una logica solidaristica del tutto diversa da quella marxista, che inneggiava alla lotta di classe ed agli espropri proletari. Nel corso degli anni l’Italia, tranne alcune circoscritte parentesi, si è barcamenata tra modelli socialisti e liberali, con prevalenza dei primi che meglio aderiscono alla vocazione dello Stato di assistere e quindi di ingerire nella vita dei cittadini. Il clientelismo, lo sperpero del pubblico danaro, la presenza dei partiti a gestire il governo e le istituzioni stesse, sono il lascito principale dell’assistenzialismo statale. L’espressione che tutto giustifica è la Giustizia sociale che finisce con l’essere null’altro che la distribuzione di una quota di ricchezza sottratta a coloro che la ricchezza producono, carpita sotto forma di tasse e gabelle. L’intervento statale, ritenuto salvifico dai governanti cripto socialisti, alimenta politiche sciagurate e dissipatrici, spesso finalizzate a procurare clienti e voti a chi governa. In ogni caso si tratta di una turbativa del libero mercato di concorrenza, in quanti tali sussidi modificano i rapporti di forza tra i produttori e la loro presenza sul mercato medesimo. Un’impresa che privatizza gli utili e pubblicizza le perdite, utilizzando incentivi ed ammortizzatori sociali, conquista posizioni di vantaggio e privilegio sul mercato. Insomma: in Italia chi governa lo fa attraverso il camuffamento del socialismo, spacciato per liberismo. In una Nazione economicamente forte come la Germania accade che il capitalismo sia ben temperato, mediante forme solidaristiche di un sistema che gli economisti chiamano “Ordoliberalismo”. Una terza via, un sistema nel quale è il mercato che “controlla” e limita l’intervento dello Stato. Nel nostro Paese, invece, avviene l’esatto contrario: è lo Stato a controllare il mercato di concorrenza, intervenendo nel sistema con i suoi ammortizzatori sociali. Una lunga premessa, la nostra, per chiarire che la pandemia, e la crisi che ne consegue, stanno continuando ad ispirare politiche statali pauperistiche ed assistenziali nel Belpaese. Di conseguenza aumentano a dismisura lo stock di debito pubblico e la pesante ipoteca che graverà sulle future generazioni. Una stagione politica all’insegna di prestiti colossali (leggi Recovery plan) che l’Italia dovrà comunque restituire entro gli anni ‘50 di questo secolo. Se questo aiuterà la ripresa economica e l’occupazione è difficile certificarlo. L’unica cosa certa è che vivremo anni fatti di tasse e gabelle, lacrime e sangue. Converrebbe sposare le teorie economiche di un libero mercato ben temperato, non esorcizzarlo e dimenticarne i pregi sociali. Sembra la solita solfa, Mario Draghi nulla dice in proposito e niente garantisce. Insomma il nuovo premier per il momento somiglia più a Forlani che alla Merkel. Sarà in grado di trovare mai una terza via tra socialismo e libero mercato? Un interrogativo che pesa come un macigno sul destino delle future generazioni più della pandemia.