In queste ore una serie di cerimonie pubbliche, alle quali hanno partecipato i massimi vertici dello Stato, hanno ricordato la strage di Capaci, lo “attentatuni”, come fu definito in gergo siciliano dalla cosca mafiosa di Totò Riina, che costò la vita ai magistrati Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, sua moglie, ed agli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonino Montanari, oltre a ventitré feriti. Esecutore materiale della strage quel Giovanni Brusca, componente del braccio militare della cosca Corleonese, autore di oltre un centinaio di omicidi, responsabile anche di aver sciolto nell’acido un bambino figlio di un pentito, per una vendetta trasversale. Sapere che questa persona vive libera e stipendiata dallo Stato, con tutta la propria famiglia, come frutto della legge sui pentiti, desta sconcerto. Un esempio delle storture dell’attuale legislazione sui pentiti, che spesso i pubblici ministeri utilizzano a proprio uso, per creare i presupposti dell’azione penale. Sarebbe il caso di modificare questa legge in molti suoi aspetti, eliminando le criticità che mostra, a cominciare dalla disponibilità e della gestione del pentito che andrebbe affidato a giudici terzi e non alla pubblica accusa che elargisce finanche i benefici di legge. Sarebbe, ad esempio, il caso che un magistrato, non inquirente, verificasse prima la veridicità delle circostanze e degli accadimenti rivelati dal pentito nonché l’attendibilità del medesimo. Solo in seguito, a verifica positiva ed a riscontri oggettivi, si dovrebbero utilizzare le notizie acquisite come materiale processuale. Insomma, un’elementare applicazione di quelle garanzie costituzionali riconosciute ai Cittadini, come la presunzione di innocenza, la verifica e l’esibizione delle prove a carico di chi esercita il ruolo dell’accusa. Falcone fu contestato da politici in cerca di notorietà e di verginità come Leoluca Orlando, e dai parlamentare della Rete Galasso e Mancuso, da magistrati come Elena Paciotti, divenuta in seguito presidente dell’associazione magistrati, da Armando Spataro e finanche Luciano Violante che consigliava all’allora ministro di giustizia Martelli di ritirare dalla corsa alla Direzione Investigativa Antimafia proprio il nome del magistrato palermitano. Non mancavano altri artefici del giustizialismo di basso conio che accusarono Falcone di essere colluso con i politici e di non tener conto delle dichiarazione dei pentiti e di certe illazioni e deduzioni che prendevano corpo in taluni ambienti. Finanche l’attentato dinamitardo all’Addaura, la spiaggia vicino alla villa di Falcone, fu ritenuto, malignamente, un espediente, una macchinazione per attirare l’attenzione su se stesso. Una battaglia che la sinistra portò avanti con perfidia, utilizzando il circuito mediatico giudiziario, come testimoniò un intellettuale di sinistra di grande spessore culturale, come Gerardo Chiaromonte. Cose che oggi sembrano sepolte, coperte dall’oblio, dall’ipocrisia e dalla canea dei conformisti e degli amici postumi del giudice massacrato a Capaci. A questa commemorazione seguirà, a luglio, quella di Paolo Borsellino. Anche in questo caso il ricordo non farà memoria di quello che in verità furono questi due magistrati, invocati come eroi, ma lasciati praticamente soli perché non funzionali al gioco delle parti, non partecipi delle conventicole politiche, non graditi alla corrente di Magistratura democratica e finanche etichettati, come Borsellino, vicini alla destra nostalgica. Per loro panegirici commemorativi, ricordi non memoria della loro vicenda professionale. Dimostrarono che indagare non significa identificare a priori e creare un nemico da abbattere, un uomo da screditare e da carcerare fino a prova contraria, invertendo, con l’uso dei pentiti, l’onere della prova in capo all’imputato. Occorre, invece, cercare la verità senza pregiudizi e senza compromessi, occorre lavorare duramente, non affidarsi ai kilometri di registrazioni ambientali, per carpire notizie su colui che si dovrà indagare, spesso con l’uso della cosiddetta “pesca a strascico”, intercettando a casaccio per mesi. Falcone seguì il percorso dei soldi, dei “piccioli”, per capire chi erano coloro che si erano posti a capo della mafia e quali fossero le “collusioni”. Lavorava sodo e quindi dava fastidio alle mezze tacche in toga, come in qualsiasi altro luogo di lavoro. In queste ore la notizia di un avvocato che leggendo un fascicolo processuale, scopre che esso contiene la sentenza già scritta dal presidente del collegio giudicante, ancor prima dell’udienza finale (!). Purtroppo sono numerosi i casi di copia ed incolla che i Gip ed i Gup utilizzano per le loro sentenze, copiando pedissequamente le tesi del pubblico ministero. Con Giovanni Falcone vivo avremmo forse avuto la vittoria della cultura del diritto, il giudice sereno, la riforma della giustizia, il giusto processo e la separazione delle carriere. Ecco perché gli si dedica solo il ricordo e si continua ad ignorarne la memoria.