Assordante silenzio

I francesi, maestri in fatto di frasi idiomatiche (modi di dire), affermano che nella vita spesso “Ça va sans dire”, ovvero: le cose vanno da sé. Un po’ come accade nelle nostre vite nel momento in cui mettiamo in piede un determinato progetto e le cose, invece, arrivano da sole, quasi in maniera non intenzionale. In soldoni: ciò che manca nelle nostre esistenze “sociali” e che invece esiste in natura per tutti gli organismi biologici, è la teleonomia, vale a dire la capacità di un organismo di crescere e strutturarsi secondo un progetto ben definito, che ben sappiamo esistere ed essere codificato nei nostri cromosomi e nell’espressione o nell’inibizione dinamica dei nostri geni.

Questo divario tra esistenza ed essenza, intesa come ciò che non possiamo non essere, segna il destino della vita sociale degli esseri umani, che differisce, come si sarà capito, da quella biologica. In estrema sintesi: un uomo può vivere in salute anche per cento anni (vita biologica), senza però mai diventare una persona che lasci una traccia degna di questo nome nella società (vita sociale), non riuscendo ad esprimere cose degne di essere rimarcate oppure ricordate nel tempo. Un concetto, quest’ultimo, caro a quei grandi uomini d’ingegno che furono i filosofi e gli scienziati dell’antica Grecia. Questi ultimi solevano ricordare che un uomo non muore mai se resta nel ricordo dei propri simili. In questa ottica l’immortalità consisteva nel realizzare cose egregie e durature nella propria vita, di uno spessore tale che fossero tramandate nei secoli e custodite nella memoria delle generazioni future.

Una lezione, quella degli antichi, che è ormai sepolta nella storia dell’umanità, avvilita e resa cieca dall’ignoranza che pervade il mondo contemporaneo, aggrappato sempre meno ai saperi dell’umanesimo e sempre più alle qualità ed alle strabilianti capacità sostitutive offerte dalla tecnologia. Comunque sia la vita cosiddetta moderna, caotica e multiforme, perennemente assetata di progresso e di benessere, non rintraccia più i bisogni esistenziali, ma quelli edonistici e voluttuari. Illusi da un benessere che crediamo senza soluzioni di continuità, eccitati dalla società dei consumi e dal relativismo etico, oggi non badiamo più al fine ultimo di dare un senso compiuto al fugace passaggio su questo mondo. Un lungo prologo, il mio, che fa da riflessione e retroterra civile all’archetipo dell’uomo moderno fungendo, altresì, da ragione intima rispetto alla perdita di taluni valori fondativi della socialità e dei pregi civici. Se la politica, ovvero il servizio alla società, l’interesse del bene comune, è uno di questi valori, non ci si può meravigliare che essa sia in stato di deterioramento se non di abbandono.

La politica, infatti, si conforma alla natura della società che è chiamata a governare ed alla scarsità dei talenti che occorrono per mettersi alla guida della macchina governativa, oltre che degli uomini e dei loro plurimi bisogni. Scandalizzarsi per i fenomeni di scadimento della qualità della vita politica è una mera finzione che rasserena gli animi ed esime da crisi di coscienza tutti quelli che non praticano e non si impegnano nel servizio alla comunità. Insomma: un cane che si morde la coda in una democrazia rappresentativa, ove gli eletti somigliano, gioco forza, agli elettori.

Tutti pretendono da chi li governa il meglio per se stessi e misurano le realizzazioni a carattere generale come un corollario di scarso valore. Che un nugolo di persone, a digiuno di cultura ed esperienza politica, scelte attraverso i social, sia assurto al governo del Paese, è l’esempio di scuola del retroterra che abbiamo descritto. Senza partiti politici, senza idealità, valori, programmi e visione di modelli socio economici, i candidati dovrebbero trasformarsi in persone capaci di governare per mezzo del consenso elettorale ottenuto. Insomma le elezioni stesse più che un metodo di selezione e di scelta di coloro che si sono proposti, dovrebbero diventare una specie di miracolo in grado di trasformare gli eletti in persone capaci ed adeguate all’arte di governo della Nazione. Una volta i partiti selezionavano su base democratica al loro interno uomini e programmi confacenti alla loro storia ed alla propria ragion d’essere.

Oggi ci affidiamo all’illusione che la carica santifichi chi la ricopre. E che dire del fatto che di questi tempi la campagna elettorale diventa un esibizione di facce e di simboli inventati dai grafici e dagli esperti in marketing? Non s’ode una sola parola sui programmi e sulle proposte che dovrebbero differenziare alternativamente liste e schieramenti. Si va verso le urne senza proferir parola, senza un’idea organica sul da farsi: una carica di persone in bella mostra senza parola e senza intenti. In disparte il clientelismo ed il mercimonio che pure sono preponderanti di questi tempi in cui tutto si celebra in un assordante silenzio. Ludi cartacei e muti.

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