Lo abbiamo più volte denunciato dalle colonne di questo stesso giornale: viviamo in una Nazione dichiaratamente liberale, ove dovrebbe operare un’economia di mercato, presunta come libera e concorrenziale, ma che in realtà è di tipo cripto socialista, ovvero statalista. Una doppiezza, tra il dire ed il fare, che dagli anni Ottanta del secolo scorso ci ha regalato uno tra i più alti deficit di debito statale, figlio dell’uso spregiudicato della leva della spesa pubblica a debito crescente. Dai primi governi di centrosinistra, che rimpiazzarono quelli di centro (a guida De Gasperi e come partner di maggioranza la Democrazia Cristiana), fino ai giorni nostri, non c’è stato governo che non abbia dissipato il danaro dei contribuenti. Lo sperpero è sempre nato dall’idea che lo Stato dovesse fare l’imprenditore, senza alcun vincolo di osservare le regole basilari dell’impresa, a cominciare da quella di non fare debiti da accollare, poi, alle generazioni future. Per dirla in maniera elegante: qualunque fosse il colore politico e la composizione partitica del governo in carica, il sistema economico al quale esso si ispirava era di tipo keynesiano, ovvero dell’intervento in economia dello Stato. Fu addirittura messo in piedi un apposito Ministero, quello delle Partecipazioni Statali, affinché la serie di interventi, quasi tutti deficitari, potesse essere organicamente realizzata. Parliamo di grandi e piccoli “interventi” che addossarono allo Stato la ragguardevole cifra di diecimila imprese!! Non è esistita legge finanziaria che non abbia dovuto rifondere migliaia di miliardi di vecchie lire, per ripianare i debiti prodotti delle grandi aziende “partecipate” e non è esistita azienda decotta che non sia stata soccorsa dalla benevolenza statale. Eclatante il caso della Montedison che venduta a Raul Gardini per quattro soldi, con tanto di benefici collegati a sconti di tipologia erariale e contributiva, fu poi riacquistata dallo Stato a prezzo maggiorato di diverse decine di miliardi del vecchio conio. Alla base di questa e di altre scellerate analoghe imprese, la volontà di impedire che la razionalizzazione industriale ed il taglio dei rami secchi potesse produrre disoccupazione con la relativa perdita di controllo politico ed elettorale. Fu così con la siderurgia a Terni ed a Taranto, con il settore alimentare di Cirio-Bertolli-De Rica, i servizi con Telecom, la rete Autostradale, l’Alitalia e via discorrendo. Il verbo fu “privatizzare gli utili e pubblicizzare le perdite”. Ma non bastò lo sperpero di danaro proveniente dal Ministero del Tesoro o dalla Cassa Depositi e Prestiti (risparmio postale). Nossignore. Sorsero anche banche a capitale pubblico o partecipate dallo Stato a “rifondere” altro denaro. Fu così che la Banca Nazionale del Lavoro divenne appannaggio del partito socialista, il Banco di Napoli si trasformò in un feudo della Democrazia Cristiana ed il Monte Paschi di Siena entrò nell’orbita del Partito Comunista Italiano. La gestione politico clientelare sugli affidamenti bancari alle grandi imprese fu un’altra delle cinghie di trasmissione clientelari nonché il presupposto affinché le opere pubbliche realizzate da queste producessero finanziamenti occulti ed occupazione per i galoppini ed i grandi elettori. Il principio politico socialista era che le banche non potessero fallire. E’ solo il caso di ricordare i fallimenti di imprese “benvolute” dagli istituti di credito in quanto collegate a partiti politici, come la Parmalat, banca Etruria, Carige, la popolare di Bari e Banca Veneto. Insomma: un ginepraio di interessi che nulla aveva a che vedere con il pubblico interesse se non per garantire ammortizzatori sociali. Eppure non uno dei boiardi che furono messi alla guida di queste banche è stato condannato da una giustizia strabica ed indolente, tutta intenta a perseguire i politici ed a conquistarsi titoli a nove colonne sui giornali! Alcune di quelle banche statali sono state assorbite a prezzi stracciati da altri istituti e la libera circolazione degli sportelli bancari ha fatto il resto. Venendo ai giorni nostri, siamo alle prese con lo scandalo del Monte Paschi già munificamente sostenuto con prestiti miliardari dallo Stato ed ora in condizioni pre-agoniche. Né il Tesoro, né UniCredit sono giunti ad un accordo per salvare lo storico istituto senese. Unicredit, tra l’altro, ben sa che non potendo fallire, il MPS dovrà essere acquistato a prezzo di svendita. Insomma, tra tanti bancarottieri l’unico che sta scontando la pena per una…tentata bancarotta – nella quale tutti, azionisti e clienti, sono stati pagati! – è stato Denis Verdini. La sua colpa? è di non avere recuperato, come presidente della banca cooperativa fiorentina, una parte dei crediti concessi. Un vero paradosso visto che i grandi elemosinieri statali sono tuttora in libera circolazione.