Scuola, l’ennesima riforma

Dalla costituzione del Regno d’Italia ad oggi le riforme legislative sulla scuola saranno state circa una trentina. Quella più incisiva fu quella voluta dall’allora Ministro della pubblica istruzione Giovanni Gentile, promulgata nel 1923 sotto il governo Mussolini, che espresse la volontà di una scuola rigida ed elitaria in cui l’obbligatorietà durava fino ai 14 anni. Tale riforma rese obbligatorio l’insegnamento della religione cattolica mentre l’Università diventava accessibile solo a quelli che conseguivano le maturità liceali (classico e scientifico). Dal dopoguerra in poi fu tutto un susseguirsi di modifiche tese a destrutturare la scuola gentiliana e il suo portato didattico e nozionistico, ritenuto gravoso e per certi versi inutile. Gonella, Gui, Moro, Berlinguer e poi Moratti, Gelmini e Renzi hanno provato a riformare l’istruzione in Italia, quasi sempre fallendo nel loro intento. La vera svolta fu quella degli anni sessanta-settanta del secolo scorso, allorquando furono introdotti i cosiddetti decreti delegati, forme di partecipazione degli alunni e dei genitori alle attività scolastiche, sotto la spinta dei moti studenteschi e la resa della politica dello Stato e degli atenei alla demagogia della sinistra parlamentare ed extraparlamentare. Insomma: invece di alzare i banchi si abbassarono le cattedre, con la perdita dell’autorevolezza e dell’autonomia dei docenti. La demagogia l’ebbe vinta e la scuola divenne un ammortizzatore sociale: un comodo “stipendificio” per i laureati disoccupati del Mezzogiorno. Bassi gli stipendi, alto il numero degli addetti ai lavori, basso il numero di ore d’insegnamento, scarsa la didattica, alta la pedagogia dell’accoglienza: la scuola si trasformava così in un luogo di socializzazione e non più d’istruzione. Innanzi a quello che in generale esce dalle aule dei tempi odierni, all’ignoranza di base ed alla scarsa conoscenza degli elementi basilari dell’erudizione, non occorre addentrarsi molto per accertare quanto scadente sia il risultato finale. In vero la riforma Renzi, a cui diedi il voto in Senato, aveva tentato di introdurre criteri meritocratici e la misurazione dei saperi sia per i prof che per i discenti, conferendo autorità e possibilità di scelte ai presidi, stabilendo criteri stringenti per l’assegnazione delle cattedre. Sottoposta poi a progressivo smantellamento, dopo la perdita del Referendum costituzionale, proposta che fu bocciata anche perché trasformata in un plebiscito contro l’ex sindaco di Firenze con gruppi organizzati di docenti a fare una propaganda capillare. Insomma rivinceva la voglia di mantenere lo status pre esistente con tutte le nicchie di comodità che si erano sedimentate negli anni, grazie anche alla pletora di sindacati di categoria e dei partiti della sinistra storica che nel mondo della scuola riscuotevano larghi consensi. Per dirla con altre parole: tutti a lamentarsi, nessuno a muovere un dito per cambiare le cose. Arriviamo così ai giorni nostri ed ecco che il governo Draghi licenzia una riforma per il reclutamento e la formazione dei docenti. Essa poggia sostanzialmente su di una nuova modalità di “cursus studiorum” e sulla formazione continua. In pratica nessuna modifica degli andazzi e delle comodità già esistenti per gli insegnanti e della scarna didattica per gli studenti. Nessuna introduzione di criteri come merito e sapere per selezionare i più capaci ed i più studiosi, nessun accenno a prove di verifica dei saperi. Nessuna selezione dei finanziamenti e nessuna premialità per gli istituti didattici più qualificati ed eccellenti. E’ rimasta immarcescibile l’idea che la meritocrazia sia una discriminante per coloro che vivono condizioni sociali svantaggiate e quindi non in grado di poter competere. Una colossale asineria che confonde gli aiuti e i sussidi da garantire gratuitamente a chi ne ha bisogno, con l’obbligo di ridurre i criteri di giudizio verso i medesimi per parificarli ai più meritevoli. A questo va ad aggiungersi la mistificazione del concetto di competizione trasfuso in uno strumento di emarginazione dei meno capaci. Così l’unico obbligo lasciato alla scuola, ormai, è uno solo: quello imperativo e categorico di dover promuovere tutti (!). Quest’anno scolastico si prevede che il novantanove percento degli studenti sia promosso sulla base di una semantica valutativa che si stenta finanche a comprendere nella sua essenza. Per tutta risposta, il governo si avvia a complicare l’excursus per salire in cattedra, dopo che oltre centomila docenti sono già stati assunti, molti dei quali già bocciati al concorso e recuperati col “doppio binario” sulla base del solo punteggio di anzianità. Insomma un girare attorno al vero problema di poter misurare i saperi degli studenti e su questi parametrare gli stipendi e i premi destinati ai prof ed alla scuola in cui costoro insegnano. Se il corpo docente è considerato un corpo elettorale e la scuola una cinghia di trasmissione clientelare, un serbatoio occupazionale, il sapere dei giovani non avrà mai alcun valore.

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome