Non credo siano state vendute molte copie del magnifico libro di Jean-François Revel che venti anni or sono fu pubblicato in Italia, dal titolo “L’ossessione antiamericana”. Revel, per chi non lo conoscesse, fu un grande scrittore, giornalista e filosofo francese. Socialista in gioventù, divenne in seguito esponente di spicco del liberalismo. Come tutti quelli che avevano militato su entrambe le sponde ideologiche, una volta raggiunta la visione liberale delle cose, anche lui fu in grado di interrogarsi, a ragion veduta, sui mali derivanti dall’idolatria dello Stato onnipotente. In sintesi, di poter fare un confronto tra le società omologate e pianificate, tipiche dei regimi socialisti, con le mille possibilità che gli individui sono in grado di poter sfruttare nella democrazia delle “società aperte”, quelle che per cultura sono organizzate liberamente, vocate al rispetto di tutte le opinioni (tranne quelle degli intolleranti e dei violenti). In quest’ottica generale Revel si pose il problema di comprendere a fondo il fenomeno culturale e sociale che in questi mesi, innanzi alla guerra scatenata dai Russi contro Kiev, sta tornando prepotentemente di moda: la diffusione di un sentimento anti americano. Chiunque legga i giornali e frequenti il web può facilmente rendersi conto di come spesso emerga un paradigma illogico tra la barbarie che abbiamo innanzi agli occhi in Ucraina al cospetto dei pregressi interventi militari ai quali gli Stati Uniti hanno partecipato in passato. Un paragone che subliminalmente tende ad alleggerire l’esecrazione e la condanna verso l’aggressore russo per l’arbitrario conflitto scatenato da Vladimir Putin con tutto il suo corredo di distruzioni e crimini di guerra. Una specie di “così fan tutti” a cominciare dall’America del Nord descritta come paese storicamente guerrafondaio che ha commesso, in altri tempi ed in altri luoghi, i medesimi crimini di cui oggi si accusa il Cremlino. Una menzognera distonia storica che addebita come guerre volute dagli statunitensi finanche i conflitti nei quali Washington è intervenuta sotto l’egida dell’ONU per operazione di peacekeeping. In aggiunta il quaderno delle doglianze contiene anche riferimenti alle missioni per combattere Bin Laden e i terroristi dell’Isis e, per paradosso gli interventi in Europa durante la prima e la seconda guerra mondiale. Insomma finanche il gravoso contributo di sangue per liberarci dal nazifascismo viene ascritto alla proterva indole militaresca degli States. Gli stessi che oggi godono di libertà civiche, politiche ed economiche avute in retaggio dai loro padri grazie proprio all’intervento militare richiesto agli Usa a quei tempi, esercitano oggi il diritto di criticare e di condannare quella grande nazione. Critiche sono state mosse, negli anni scorsi, finanche sull’intervento statunitense in Corea del Sud per arginare la marea rossa filo-cinese, mentre nessuno apre bocca sui sanguinari raid russi in Siria ove Mosca appoggia a suon di bombe il governo della famiglia Hassad. Tuttavia non basta questa rispettosa e veritiera lettura della Storia a spiegare una paradossale avversione contro la bandiera a stelle e strisce, perché il fenomeno affonda in fattori di antica data. Il primo è che dopo la caduta del comunismo ed il dissolvimento dell’Urss, gli Usa sono rimasti gli unici padroni del mondo. Molti degli intellettuali, dei giornalisti, dei docenti universitari e degli artisti che militavano organicamente nelle fila dei partiti comunisti , una volta divenuti orfani di quell’ideologia, hanno fatto ammenda solo in minima parte di quanto asserito in passato, continuando a coltivare un rancoroso diritto di critica verso il capitalismo ed il liberalismo. Insomma, sia pure dichiaratisi in gran parte liberali ancorché vicini alle tesi di J.M. Keynes, teorico dell’intervento dello Stato in economia e dunque socialista, costoro sono rimasti contrari alle tesi di governo che negli Stati Uniti trovarono la ragion d’essere nella costituzione liberale e nella prassi politica e sociale. Con l’avvento della globalizzazione ed il trionfo del libero mercato nel mondo, ogni disarmonia, ogni sperequazione, ogni intralcio che consegue allo sviluppo economico, diventa il leit motiv per rivendicare una qualche forma di socialismo e di statalismo, panacea ai mali atavici del capitalismo, ancorché questi non abbia mai postulato la società perfetta degli eguali ma solo l’uguaglianza delle opportunità e la disuguaglianza degli esiti secondo capacità e merito. Un retaggio di valori che non risulta gradito ai vecchi marxisti, né a quelli che campano di assistenza sociale, a clienti che vivono con la greppia dello Stato. Insomma l’ossessione anti americana è il riflesso di una delusione ideologica, la paura per un modello di vita nel quale occorre competere per emergere. Troppo oneroso per un popolo come il nostro che ha da sempre vissuto alle spalle dello stato pantalone.