Il ritorno delle toghe

Ad un grande politico della prima repubblica fu affibbiato il nomignolo “Rieccolo“. Il suo nome era Amintore  Fanfani più volte presidente del Consiglio e del Senato, Ministro e segretario politico della Democrazia Cristiana. Fanfani era ritenuto uno dei cavalli di razza dello Scudo Crociato, uno dei professorini che, nel dopo guerra, avevano fortemente inciso sulla linea politica di quello che era il più votato dei partiti politici italiani. Con Giuseppe Dossetti, Giuseppe Lazzati e Giorgio La Pira anch’essi, come lui, docenti universitari, religiosissimi e divenuti poi servi di Dio, aveva dato vita ad una corrente progressista dentro la Balena Bianca, propensi com’erano ad aprire alla collaborazione di governo col partito socialista, in un governo di centrosinistra. Fu quindi con Aldo Moro, una delle più fertili menti politiche che orientarono la Dc dopo la stagione dei governi centristi guidati da Alcide De Gasperi. La sua stella ebbe il maggiore fulgore negli anni Sessanta e Settanta allorquando, prima ed ultimo italiano, venne eletto presidente dell’Assemblea Generale dell’Onu. Tuttavia per l’autorevolezza politica e culturale che lo contraddistingueva, venne spesso richiamato a cariche di governo, riemergendo inaspettatamente ai vertici della politica tricolore. Da questa caratteristica – risorgere dall’oblio politico – gli derivò il nomignolo affibbiatogli poi dai giornalisti. Un attributo che sembra ritornare, in questi giorni di campagna elettorale, per alcuni magistrati anti mafia. Dopo l’affare Palamara, che ha scoperchiato la pentola della stretta connessione tra una parte della Magistratura inquirente (procuratori e pubblici ministeri) con ambienti politici del Partito democratico per la spartizione (per meriti e fedeltà politica) dei vertici delle principali Procure Italiane. Ebbene questa tipologia di toghe aveva, finora, assunto un basso profilo per mettere la sordina allo scandalo. Ed infatti così è stato essendo finiti  sotto processo solo i “benefattori”, Luca Lotti e Luca Palamara, e non i beneficiati che, tuttora imperterriti, gestiscono  i palazzi di giustizia e le inchieste penali. Insomma il bandolo della matassa è rimasto nelle mani di quella frangia di giudici politicamente orientata e, come frutto di questa perdurante commistione di interessi, ecco che registriamo la discesa in campo di diversi ex magistrati di punta nelle pluriennali, quanto inutili inchieste, orientata a dimostrare la connessione stretta tra taluni politici e cosche malavitose. Ecco quindi scendere  in campo gente del calibro di Federico Cafiero De Raho, ex procuratore antimafia, Roberto Scarpinato ed Antonio Ingroia  componenti del pool di Palermo, quelli, per intenderci, che per venti anni hanno perseguito uomini dello Stato e politici, perlopiù  di centrodestra,  per dimostrare l’esistenza del patto tra Stato e mafia, ricavandone solo sentenze di assoluzione degli indagati. Insomma, sulla scia di loro altrettanto noti colleghi del passato, appena raggiunta in la pensione, costoro sono passati organicamente nelle fila di quei partiti politici che, guarda caso, avevano fatto del giustizialismo e delle manette il proprio programma politico. Un ulteriore esempio di come, nell’esercizio delle loro funzioni, hanno fatto prevalere i propri,  sconosciuti e mai sopiti,  orientamenti politici. Il tutto  orientando inchieste e costruendo teoremi strabici, palate di fango per seppellire gente che aveva, in definitiva, il solo torto di essere di un altro orientamento politico e, soprattutto, di godere di consenso elettorale. Oltre questi esempi, di palmare evidenza, d’un tratto sono riprese le interferenze di taluni giudici tuttora in servizio ed aventi gli stessi convincimenti. A cominciare dalle nuove star dei salotti televisivi Nicola Gratteri e Nino De Matteo, che da anni salmodiano sul nesso tra politica e mafia. Il primo, dopo centinaia di arresti, confermati solo per poche unità dal tribunale della libertà, e successivamente finiti in assoluzione, organizza vere e proprie conferenze stampa durante le quali si esibisce in lunghe analisi sociologiche, moralistiche e filosofiche sul retroterra che alimenta il  fenomeno criminale. Il secondo,  in questi giorni intervistato da un giornalista di parte, che gli poneva domande retoriche con risposte incorporate, affermava che la candidatura di Renato Schifani alla presidenza della giunta regionale in Sicilia costituiva una vergognosa marcia indietro nella lotta anti mafia, che più in generale nei partiti le candidature le decidevano la gente collusa e/o condannata per mafia. A sostegno della tesi ricordava che la sentenza di archiviazione (sic !!) per Schifani comunque illustrava che costui avesse avuto nel 1992 contatti con persone in qualche modo legate a taluni ambienti del malaffare. Ovviamente ometteva di dire che quel giudice aveva ritenuto quei contatti ininfluenti ed al di sotto della soglia minima per poter imputarlo di quell’ambiguo reato, non presente nel codice penale, che è il concorso esterno. Insomma: rieccoli con la caccia alle ombre. E chiamiamo l’Italia la culla del Diritto…

*già parlamentare

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