La politica è l’arte del divenire, soprattutto in un’epoca in cui i vecchi riferimenti ideologici ed i posizionamenti dettati da principii e visioni socio economiche, appaiono flebili. Lo dimostra la recente fine del Terzo Polo, creatura nata da frange della sinistra approdate, poi, a lidi liberal democratici, con due comandanti in capo sussiegosi, pretenziosi e diffidenti, ed oggi ritrovatasi al centro di un “colpo di scena” non da poco. La furbizia di Matteo Renzi, tuttologo della scienza politica, da sempre barcamenatosi tra le lezioni di Jaques Maritain e Giuseppe Dossetti, per divenire un Amintore Fanfani (sia pure al sedicesimo) che strizza l’occhio ad Antonio Gramsci ed Enrico Berlinguer, ha pagato dazio un’altra volta. Spesso e volentieri l’ex “rottamatore” e segretario del Pd, si è destreggiato nell’arte della tattica senza avere una visione strategica del campo largo del riformismo, per poter riscuotere un successo stabile. Di contro Carlo Calenda, sempre proveniente dalla sponda dem, ha risposto con eguale tatticismo senza aprire, però, le porte di Azione alla società civile, ai ben pensanti e ai moderati convinti preferendo, all’opposto, approdare in parlamento con compagni di strada infedeli ed ondivaghi come quelli di Italia Viva. Che fine avrà fatto il progetto maggioritario di mettere insieme i riformatori con un sistema elettorale semplice ed intellegibile, circoscritto ai solo collegi uninominali ed al premio di maggioranza, non è dato sapere. Ecco che due paia di calzini vecchi non ne hanno fatto uno nuovo e due debolezze in sintonia non hanno acquisito la forza necessaria. Tuttavia resterebbe un mare magno di elettori che continua a rifiutare le urne. Un “serbatoio” di liberali e moderati che, dopo l’illusionismo berlusconiano, sono rimasti delusi nelle loro case. Parliamo di oltre il quaranta percento degli aventi diritto al voto e guarda caso costoro si sovrappongono, percentualmente, a coloro che scelsero “si” alla riforma costituzionale di renziana memoria. Ma non è detto che questo immenso bacino elettorale non possa rientrare, in gran parte, nel gioco sommandosi a quella percentuale che, turandosi il naso, continua a optare per il meno peggio dell’offerta politica e partitica che viene loro proposta. In questo caso arriveremmo a cifre consistenti di voti in grado di cambiare il volto e la sostanza delle cose, ponendo anche termine ad un’eterna e mai compiuta transizione del sistema. Se una persona sveglia e volitiva come Giorgia Meloni, che ha un buon bagaglio politico e le stigmate della leadership, cominciasse a ragionarci su, male non farebbe. Per giungere a tanto bisognerebbe tuttavia avere il coraggio di fare quello che il tanto vituperato (a ragion veduta s’intende) Gianfranco Fini realizzò il 27 gennaio del 1995: un cambio di posizione netta ed un rinnovamento ideologico che l’ex presidente della Camera nonché segretario del Msi-Dn, indirizzò nel suo partito, guidandolo verso la destra conservatrice ed europeista. Apologeti dell’operazione: Pinuccio Tatarella, Domenico Fisichella, Gennaro Malgeri ed, a latere, l’intellettuale Marcello Veneziani con l’aiuto dei giovani “colonnelli” dell’epoca. Questi accantonarono allora tutte i residui post fascisti, l’idea corporativa dell’economia sposando il classico interclassismo di democristiana memoria. Una visione che poneva le forze vive della nazione su di uno stesso piano rilanciando il compito storico della borghesia sana, illuminata ed imprescindibile nelle sue libertà. A corollario di questa rivoluzione, ecco arrivare il riconoscimento del libero mercato di concorrenza ed il liberalismo come bandiere dello Stato con l’uomo al centro dell’azione politica. Una nuova terminologia trasformava per sempre il partito dei nostalgici e dei facinorosi, degli xenofobi e dei reduci delle vecchie ed aspre battaglie anti comuniste. D’altronde, il muro di Berlino era caduto da nemmeno cinque anni e sotto di esso poteva ben sparire anche il nemico storico del socialismo reale oltre al medesimo, perché simul stabunt simul cadent (le cose che stanno insieme cadono insieme). Tuttavia, se un ulteriore passo avanti lo facesse, oggi, anche Giorgia Meloni, allargando la platea dei partecipanti in conseguenza della più larga visione della società e dello Stato, il moderatismo ed il riformismo potrebbero giungere dal versante opposto a quello di partenza politica del fallito Terzo Polo. Ed ancor più prenderebbe forza e consenso l’idea che si possano ammodernare, in senso liberale, le “istituzioni centrali” anche con meccanismi di riforma costituzionale e di elezione diretta del presidente del Consiglio dando più poteri al medesimo perché provenienti dalla legittimazione del voto popolare diretto. Se la Meloni saprà liberarsi innanzitutto dai suoi interessati zelatori, delle conventicole nostalgie, approdando ad un Conservatorismo liberale l’operazione potrebbe essere alla sua portata per divenire la Margaret Thatcher italiana. Finirebbe in tal modo la lunga notte della Seconda Repubblica.
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