Massimo D’Alema è un politico di razza. Cresciuto tra le mura di Botteghe Oscure (l’ex sede nazionale del PCI), fin da ragazzo – erano i tempi di Palmiro Togliatti – indossò le vesti del giovane pioniere comunista. “Baffino”, come fu nominato tempo fa, non è mai stato troppo simpatico ai suoi colleghi sia dentro che fuori dal partito, per il carattere spigoloso e per la naturale inclinazione che ha sempre avuto a voler fare il primo della classe. Una sussiegosa certezza che ha coltivato a prescindere dalle altrui opinioni, fin dall’epoca in cui i cosiddetti “quadri dirigenti” venivano adeguatamente formati alle “Frattocchie”, il luogo in cui si tenevano i corsi di formazione e di indottrinamento politico dei comunisti in salsa tricolore.
Anche quando perorava la causa del marxismo, che in cuor suo (e per acume d’intelletto), credo sapesse già declinante, D’Alema non rinnegò mai il suo passato, ossia non volle mai emulare quel Walter Veltroni che, con solenne improntitudine, ebbe ad affermare di non essere mai stato comunista. A prescindere da ogni critica ideologica, D’Alema è sempre stato un pezzo da novanta della politica italiana fino a giungere, per vie extra elettorali, alla carica di primo ministro nel 1999. La maggioranza che lo sosteneva era di centrosinistra con l’aggiunta, però, dei “quattro gatti” che seguirono Rocco Buttiglione (Cdu) e Francesco Cossiga (Udr) in quella strana avventura parlamentare. In poche parole, l’allora premier non ebbe alcuna remora ad imbarcare, nel suo esecutivo, uomini di centro del tutto (o quasi) estranei, per storia, cultura e vita politica, alle vicende della sinistra. Nel nome di un pragmatismo che si era già scrollato di dosso il settarismo duro e puro dei Bertinottiani, il “leader Maximo” fu non solo il primo post comunista ad occupare lo scranno di presidente del Consiglio ma fu anche il primo ad aprire una pagina nuova favorendo, di fatto, lo sdoganamento degli ex nipotini di Stalin, avvalorando, in tal modo, la continua ricerca di una palingenesi che aveva investito il Pci, divenuto nel frattempo Pds e poi Ds. D’Alema fu anche vice presidente nel governo Prodi ai tempi dell’Ulivo ed anche in quel caso seppe, tra i pochi, tenere la lotta politica contro Berlusconi entro gli argini della cosiddetta decenza politica. Insomma era uno dei frutti più belli del bigoncio in un contesto che già degradava verso il qualunquismo e l’inconsistenza culturale.
Fondatore e patrocinatore della Fondazione Italiani Europei, l’ex leader della Quercia ha sempre saputo dire la sua con arguzia godendo di una visione chiara delle “cose politiche”. Ritiratosi dalla politica attiva, volutamente dimenticato anche dalle mezze calzette che pure gli furono accanto, D’Alema si è dato non solo alla professione di opinionista e politologo, ma anche a quella di mediatore in affari. Se è vero che i soldi in politica servono come le armi in guerra, si può ben comprendere che anche gli apparati para politici abbiano bisogno di risorse economiche. Fondazioni e cenacoli intellettuali compresi.
Quindi non desti alcuna meraviglia il fatto che un uomo di levatura come D’Alema, dotato di una vasta rete di rapporti intessuta in molti anni di attività parlamentare e di governo, abbia saputo mettere a frutto esperienze e conoscenze maturate negli anni, soprattutto nei gangli delle grandi imprese pubbliche e statali. Un giudizio positivo, quest’ultimo, che un liberale deve pur riconoscere come plausibile, al contrario di quel che ex, post, vetero comunisti, catto comunisti e moralisti in servizio permanente effettivo, hanno sempre fatto, biasimando come trafficanti quelli addetti a tale tipo di attività. Comunque sia, praticare quella attività di intermediazione politica e commerciale in Italia, ove manca una legge che disciplini e tipizzi quel “mestiere” come in tante altre nazioni, è oltremodo rischioso. Sia per la vocazione scandalistica in voga nel Belpaese sia perché, in mancanza di norme precise, si presta il fianco all’intervento della magistratura particolarmente sensibile ed attiva quando si tratta di indagare su nomi altisonanti legati a uomini di potere carichi di notorietà. Ecco allora che scoppia lo scandalo della mediazione offerta da Massimo D’Alema tra Finmeccanica, ente di Stato, e la Colombia, per l’acquisto di navi da guerra. il 50 per cento, ossia 40 milioni.
Tuttavia quel versamento si è interrotto sul più bello perché, nel frattempo, è scoppiato lo scandalo. Le navi? Andate in fumo così come la commessa, passata a Francesi ed Americani, che di lobbismo campano senza scorno, con buona pace di moralisti e magistrati di casa nostra. Che dire? La solita Italietta velenosa ed odiosa ha preferito tenersi lo scandalo. E D’Alema? A lui è andata la gogna mediatica e la nemesi. Sì, perché al buon “Baffino” è stata fatta la… “festa”. Quella, per intenderci, che i suoi stessi sodali politici di un tempo, seppero fare ai loro avversari politici.
*già parlamentare
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